Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento e sentenza penale irrevocabile di condanna
Licenziamento per scarso rendimento
Nesso causale tra attività lavorativa e patologia e malattia professionale
Volontariato e subordinazione
Lavoro subordinato e attività resa dal fotografo professionista

Licenziamento e sentenza penale irrevocabile di condanna

Cass. Sez. Lav., 8 agosto 2022, n. 24452

Pres. Esposito; Rel. Michelini; Ric. G.F.; Contror. R.T.I. S.p.A.

Licenziamento individuale – Giusta causa – Accertamento responsabilità penale – Sentenza passata in giudicato – Rilevanza – Configurabilità

La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio civile quando questo verte su fatti analoghi a quelli oggetto del processo penale. Essa è pertanto idonea a dimostrare i fatti addebitati al lavoratore, accertati in sede penale, e che ne avevano determinato il licenziamento disciplinare, consistiti nell'aver inviato al datore di lavoro un certificato medico falso al fine di giustificare un'assenza di dieci giorni.

Procedimento disciplinare – Contestazione – Tempestività – Dimensioni aziendali – Rilevanza

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare va inteso in senso relativo, dovendosi tenere in considerazione le ragioni che possono aver cagionato il ritardo, quale il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, pronunciandosi in sede di rinvio, respingeva il ricorso proposto da un lavoratore al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare. In particolare, la Corte attribuiva rilievo decisivo alla sentenza con cui il Tribunale penale di Roma, all'esito del giudizio in cui il datore di lavoro aveva partecipato come parte civile, aveva affermato la responsabilità penale del dipendente in relazione ai fatti oggetto di causa e, in particolare, per avere contraffatto un certificato medico, apparentemente emesso da un medico ma in realtà mai emanato da quest'ultimo. Trattandosi di sentenza passata in giudicato, la Corte la riteneva idonea a fare stato nel giudizio lavoristico.Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso la suddetta sentenza eccependo, in primo luogo, la violazione dell'art. 654 cod. proc. pen. (efficacia della sentenza penale nel giudizio civile) in relazione all'onere della prova incombente sul datore di lavoro ai sensi degli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ.La Corte di Cassazione ritiene il motivo infondato, confermando la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto decisiva la sentenza penale passata in giudicato, che aveva accertato la responsabilità penale del lavoratore imputato per il reato di falsità materiale in certificato amministrativo. Nel caso in esame, la sentenza penale irrevocabile non poteva che avere efficacia di giudicato nel giudizio lavoristico, ove si controverteva della legittimità del licenziamento intimato per i medesimi fatti materiali oggetto del giudizio penale e, in particolare, l'aver inviato al datore di lavoro un certificato medico falso per giustificare un'assenza di dieci giorni.Con un ulteriore motivo di ricorso, il lavoratore eccepiva la violazione del principio di immediatezza della contestazione.La Suprema Corte respinge altresì questo motivo di ricorso, ribadendo il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il principio di immediatezza deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tener conto delle ragioni che possono aver causato il ritardo (quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa), con valutazione riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici. Nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la Corte d'Appello aveva ritenuto congruo il lasso di tempo di circa due mesi tra la commissione del fatto e la lettera di contestazione, perché non particolarmente rilevante e congruo, anche in considerazione delle grandi dimensioni della società datrice di lavoro ed al tempo necessario per accertare, con un sufficiente grado di attendibilità, l'effettiva fondatezza dell'addebito.

Licenziamento per scarso rendimento

Cass. Sez. Lav., 11 agosto 2022, n. 24722

Pres. Raimondi; Rel. Ponterio; Ric. Omissis S.r.l.; Contror. Omissis

Lavoratore invalido ma idoneo alla mansione – Rendimento inferiore al 50% rispetto alla media produttiva del reparto – Contestazione relativa alla violazione di una specifica regola di produttività aziendale – Violazione non rientrante nel cosiddetto minimo etico – Licenziamento disciplinare – Affissione del codice disciplinare – Necessità – Onere della prova a carico del datore – Configurabilità

In tema di sanzioni disciplinari, nei casi in cui le violazioni contestate non consistano in condotte contrarie ai doveri fondamentali del lavoratore, rientranti nel cd. minimo etico o di rilevanza penale, bensì nella violazione di norme di azione derivanti da direttive aziendali, suscettibili di mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche o di mercato e al grado di elasticità nella relativa applicazione, l'ambito e i limiti della loro rilevanza e gravità, ai fini disciplinari, devono essere previamente posti a conoscenza dei dipendenti ai sensi dell'art. 7. stat. lav.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale, dichiarava inefficace il licenziamento disciplinare intimato al dipendente al quale l'azienda datrice di lavoro aveva contestato "una voluta lentezza nello svolgere la mansione affidata" (consistente nell'infilaggio di tubi di rame all'interno di diaframmi di plastica), unitamente alla recidiva specifica, senza la previa affissione del codice disciplinare. I giudici di appello, in particolare, avevano rilevato come la contestazione disciplinare avesse ad oggetto la violazione, non di doveri fondamentali del lavoratore o del c.d. minimo etico, bensì di uno specifico standard di produttività fissato dall'azienda, ragion per cui quest'ultima avrebbe dovuto preliminarmente informare i lavoratori della rilevanza disciplinare della violazione di detta regola di produttività mediante l'affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti. Secondo la Corte d'Appello doveva peraltro ritenersi pacifica in causa la circostanza per cui tale onere di preventiva pubblicazione del codice disciplinare non era stato assolto dal datore di lavoro.Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che l'allegazione del lavoratore circa la mancata affissione del codice disciplinare era stata espressamente contestata nella memoria di costituzione in primo grado, sia nella fase sommaria che nel giudizio di opposizione del rito Fornero, e poichè, nelle medesime memorie, la società aveva ritualmente chiesto l'ammissione di prove circa l'avvenuta affissione del codice disciplinare.La Corte di Cassazione ritiene la censura infondata e rigetta il ricorso.La Suprema Corte ribadisce, innanzitutto, il proprio orientamento così come indicato nella massima, ricordando che «la previa pubblicizzazione delle norme disciplinari relative alle sanzioni ed alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata assolve alla funzione sostanziale di garanzia di legalità e prevedibilità dell'esercizio del potere disciplinare, realizzata mediante la pubblicizzazione della delimitazione concordata dalle parti collettive dell'ambito dell'intervento repressivo, in relazione alla tipizzazione degli addebiti, alla graduazione delle loro rilevanza e gravità ed alla correlazione con le sanzioni previste» (Cass. n. 54 del 2017). Ricorda poi la Corte di Cassazione che l'affissione del codice disciplinare «costituisce una forma di pubblicità condizionante il legittimo esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, il cui adempimento deve essere provato dal datore medesimo», precisando infine che «tale formalità pubblicitaria, che non ammette equipollenti, è diretta ad assicurare la conoscibilità legale della normativa disciplinare (di fonte convenzionale od unilaterale), sicché, come il lavoratore non può invocare la personale ignoranza delle norme disciplinari regolarmente affisse, così il datore di lavoro, ove sia mancata la regolare affissione delle stesse norme, non può utilmente sostenere che il lavoratore ne fosse altrimenti a conoscenza» (Cass. n. 1800 del 1987 e, più recentemente, Cass. n. 33811 del 2021).Confermati tali principî, la Suprema Corte rileva come nel caso di specie la società datrice di lavoro non abbia riproposto nel giudizio di reclamo avanti la Corte d'Appello le allegazioni e le istanze di prova sull'avvenuta affissione del codice disciplinare, evidenziando come, di conseguenza, le stesse devono intendersi rinunciate. In particolare, rileva la Suprema Corte che la corte territoriale aveva correttamente addossato al datore di lavoro l'onere della prova della preventiva affissione del codice disciplinare e lo aveva ritenuto non assolto, considerato che nella memoria di costituzione in appello la società non ha formulato istanze istruttorie sul punto. 

Nesso causale tra attività lavorativa e patologia e malattia professionale

Cass. Sez. Lav., 5 agosto 2022, n. 24375

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. P.A. + 2; Controric. A. S.p.A.

Malattia Professionale – Decesso del lavoratore – Danno differenziale – Nesso di causalità fra attività lavorativa ed evento – Criterio della equivalenza delle cause – Applicabilità

In materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.

NOTA

La fattispecie oggetto dell'ordinanza in commento concerne la richiesta di risarcimento del danno differenziale da malattia professionale – i.e. del maggior danno rispetto a quanto liquidato dall'INAIL titolo di indennizzo per infortunio sul lavoro o malattia professionale – da parte degli eredi di un lavoratore deceduto, cui era stata riconosciuta nel 2014 la malattia professionale (mesotelioma sarcomatoso variante transizionale) ritenuta invalidante dall'INAIL nella misura dell'80%.La Corte d'appello di Napoli respingeva il ricorso proposto dagli eredi del lavoratore confermando la sentenza del Tribunale per un duplice odine di ragioni: (i) il lungo intervallo di tempo tra la cessazione dell'attività presso quel datore di lavoro e la manifestazione della malattia (37 anni) e (ii) il fatto che il lavoratore deceduto avesse lavorato medio tempore presso un'altra società ove era stata eseguita una bonifica dall'amianto ad opera di una ditta specializzata, precludendosi così l'accertamento del collegamento causale tra malattia (e successivo decesso) e le condizioni di lavoro alle dipendenze della società convenuta.Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione gli eredi del lavoratore.La Suprema Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, ritenendo che erroneamente la Corte d'appello di Napoli aveva ritenuto non accertato il nesso causale tra l'attività di lavoro per la società convenuta e la patologia diagnosticata in ragione del periodo medio tempore alle dipendenze di un'altra società presso la quale una ditta specializzata ha svolto attività di rimozione di amianto, senza tuttavia supportare tale conclusione con l'affermazione (e la preventiva indagine) sul ruolo causale autonomo dell'attività svolta presso terzi rispetto all'insorgenza della patologia.Infatti, prosegue la Corte di Cassazione, è pacifico il principio per cui, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trovi applicazione quanto previsto dall'art. 41 c.p.: «il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni». 

Volontariato e subordinazione

Cass. Sez. Lav., 8 agosto 2022, n. 24433

Pres. Doronzo; Rel. Garri; Ric. . G.L.; Controric. L.C.A. S.n.c.

Volontariato – Accertamento rapporto di lavoro subordinato – Natura intellettuale della prestazione – Assoggettamento al potere organizzativo del datore di lavoro – necessità – Nomen juris – Insufficienza

Con riguardo alle prestazioni di natura intellettuale, che mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con una continuità regolare, anche negli orari, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice deve individuare in concreto con accertamento di fatto incensurabile in cassazione se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato – dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall'effettivo svolgimento del rapporto, senza che il nomen juris utilizzato dalle parti possa assumere carattere assorbente.

NOTA

La Corte d'Appello di Napoli, in conferma della sentenza del giudice di prime cure, rigettava le domande del lavoratore volte ad ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato.La Corte territoriale ha ritenuto che non fosse stata fornita prova dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, riconfermando dunque l'inquadramento del rapporto di lavoro nella cornice del volontariato.Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il lavoratore. La Corte di Cassazione riconferma l'iter argomentativo della Corte territoriale.Innanzitutto, viene chiarito che, con riferimento alla qualificazione del rapporto, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali da applicare alla fattispecie. Soffermandosi poi sull'analisi dell'art. 2094 c.c., torna a precisare che è elemento essenziale ed indefettibile del rapporto di lavoro subordinato l'assoggettamento personale del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro. Tale soggezione è da considerarsi come una "modalità di essere del rapporto" e desumibile da un complesso di circostanze (continuità della prestazione, rispetto di orari predeterminati, percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale). Questi elementi sono da ritenere indizi idonei (nell'ambito di una valutazione complessiva e globale) ad integrare una prova presuntiva di subordinazione.La Corte di Cassazione si focalizza, infine, sulla qualificazione delle prestazioni di natura intellettuale, il cui primario parametro distintivo della subordinazione deve essere ricercato tramite il ricorso ad elementi sussidiari da individuare nel concreto. In particolare, viene specificato sulla scia delle precedenti decisioni della stessa Corte, che la prevalenza deve esser conferita ai dati fattuali emergenti dallo svolgimento del rapporto, «senza che il nomen juris utilizzato dalle parti possa assumere carattere assorbente». Per questi motivi, la Cassazione conferma che la Corte territoriale si è attenuta a tali principi, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle relative spese di giudizio. 

Lavoro subordinato e attività resa dal fotografo professionista

Cass. Sez. Lav., 8 agosto 2022, n. 24439

Pres. Berrino; Rel. Buffa; Ric. I; Contr. R. S.p.A.

Autonomia – Subordinazione – Fotografi – Svolgimento di attività con valenza informativa – Stabile inserimento nell'organizzazione del giornale – Contatto quotidiano con la redazione – Attività giornalistica – Configurabilità – Mancata disponibilità di una postazione – Svolgimento del lavoro a distanza – Irrilevanza

Costituisce lavoro giornalistico subordinato il lavoro svolto da fotografi che – nel realizzare (pur con autonomia tecnica) foto a corredo informativo degli articoli (così da integrarne ed arricchirne il testo), inviando il prodotto in redazione – coprono in via pressoché esclusiva specifici settori informativi, assicurando il servizio e tenendosi quotidianamente in contatto con la redazione (dalla quale ricevono indicazioni su cosa fotografare nonché l'abbinamento con il giornalista per la realizzazione del servizio), integrando la relativa attività un inserimento stabile del lavoratore nell'assetto organizzativo del giornale. In tale contesto è irrilevante l'assenza dell'obbligo di essere presente in redazione o la mancata disponibilità di una postazione e lo svolgimento del lavoro a distanza, in quanto tali aspetti non sono incompatibili con la subordinazione.

NOTA

La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale sempre di Roma, da un lato, accertava la sussistenza della subordinazione giornalistica tra una società e tre giornalisti, condannando il datore al pagamento in favore dell'INPGI di contributi e sanzioni dovute, dall'altro lato, ne escludeva la sussistenza con riferimento a quattro fotografi che collaboravano con la medesima società. Avverso tale sentenza ha ricorso in Cassazione l'Istituto previdenziale resistendo la società e interponendo, altresì, ricorso incidentale.Secondo la Suprema Corte, l'iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale risulta errato con riferimento ai fotografi, mentre risulta immune da vizi con riferimento ai giornalisti. Anzitutto, la Cassazione precisa che sulla base della contrattazione collettiva di riferimento, ai fini della sussistenza del requisito della subordinazione non si richiede l'impegno del lavoratore in un'attività quotidiana con l'obbligo di osservare un orario di lavoro. Devono, tuttavia, ricorrere – secondo la Suprema Corte – i requisiti della continuità di prestazione e del vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio, i quali sussistono quando il professionista, pur senza essere impegnato in una attività quotidiana, assicuri con continuità, in conformità dell'incarico ricevuto, una prestazione non occasionale, rivolta alle esigenze formative o informative riguardanti uno specifico settore di sua competenza, con responsabilità di un servizio, cioè con l'impegno di redigere normalmente e con carattere di continuità articoli su specifici argomenti o compilare rubriche, e con un vincolo di dipendenza, contraddistinto dal fatto che l'obbligo di porre a disposizione la propria opera non viene meno fra una prestazione e l'altra. Ritiene che la Corte, citando in sentenza propri precedenti in casi analoghi, che in tema di attività giornalistica, sono configurabili gli estremi della subordinazione – tenuto conto del carattere creativo del lavoro – in caso di stabile inserimento della prestazione resa dal professionista nell'organizzazione aziendale così da poter assicurare, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un'esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, e permanga, nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, la disponibilità del lavoratore alle esigenze del datore di lavoro, non potendosi escludere la natura subordinata della prestazione per il fatto che il lavoratore goda di una certa libertà di movimento ovvero non sia tenuto ad un orario predeterminato o alla continua permanenza sul luogo di lavoro, né per il fatto che la retribuzione sia commisurata alle singole prestazioni.Con riferimento al caso di specie, la Cassazione sottolinea che, sebbene la Corte d'Appello abbia riscontrato l'inserimento dei fotografi nell'attività collettiva tipica del giornale, la continuità della stessa, la soggezione al potere direttivo e gerarchico in forma tradizionale (i fotografi si sentivano con il capo cronista per ricevere disposizioni sul lavoro da fare, si recavano sui posti dove fare le foto assieme al cronista incaricato del pezzo, la redazione organizzava il lavoro predisponendo gli abbinamenti) ne ha comunque, erroneamente, escluso la subordinazione. La giurisprudenza della Suprema Corte ha, del resto, da tempo, ritenuto il rapporto di lavoro giornalistico quale "subordinato" se la collaborazione risulti di intensità tale da determinare l'inserimento stabile del lavoratore nell'assetto organizzativo del giornale, con particolare riguardo alla continuità della prestazione ed alla responsabilità del servizio.Dopo aver richiamato il principio di cui in massima, la Suprema Corte conclude che «sulla base degli elementi fattuali dalla stessa corte territoriale accertati non può allora dubitarsi che i fotografi erano organicamente inseriti nelle attività della redazione, alla quale garantivano un rapporto informativo qualificato, sicché il rapporto di lavoro era da qualificarsi sulla base dell'indice individuato dalla giurisprudenza di questa Corte come subordinato».Da ultimo, la Suprema Corte ritiene condivisibile la valutazione della corte territoriale operata in riferimento ai giornalisti, dei quali – in fedele applicazione proprio degli indici evidenziati dalla giurisprudenza di legittimità – è stata ravvisata la continuità della prestazione ed il pieno inserimento nell'organizzazione aziendale.Conseguentemente, la Cassazione – in accoglimento del ricorso principale, rigettato il ricorso incidentale – cassa la sentenza impugnata e rinvia alla medesima corte d'appello in diversa composizione per un nuovo esame ed anche per le spese di legittimità.

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