Contrattazione

La formazione è cardine per lo smart working

di Stefania Radoccia

È ancora presto per fare un bilancio della legge 81/2017 sullo smart working, o lavoro agile secondo la terminologia italiana, poiché le principali ricerche in materia non registrano ancora, se non marginalmente, le linee di sviluppo successive alla sua emanazione.

Tuttavia, andando a rileggere i dati dell'Osservatorio del Politecnico di Milano confrontati con quelli a livello europeo di Ilo-Eurofund, entrambi del 2017, è possibile identificare le prospettive di sviluppo, anche alla luce delle tendenze internazionali in tema di incremento della produttività, bilancio ecosostenibile ed esigenze di conciliazione tra lavoro e vita privata.

I dati dell'Osservatorio del Politecnico mostrano come, dal 2013, gli occupati in qualche forma di lavoro smart siano aumentati del 60%, per un totale di oltre 305.000 lavoratori, mentre il 36% delle grandi imprese ha implementato politiche di lavoro agile, per lo più quando ancora non vi era una legislazione di settore.

I dati collocano purtroppo l'Italia all'ultimo posto tra i Paesi europei che fanno ricorso allo smart working: solo l'8% dei lavoratori italiani lo utilizza, di questi solo l'1% lo fa in modo regolare, mentre il 5% occasionalmente. Alla luce di tali dati, occorre ora porsi qualche domanda: se cioè si intravede un cambio di rotta e un irrobustimento nell'utilizzo di forme di lavoro agile promosse dall'introduzione della nuova normativa, oppure se essa costituisce un ostacolo, per via delle rigidità formali.

La legge 81/2017 ha introdotto una serie di adempimenti e di vincoli connessi, per lo più, alla formalizzazione di un accordo scritto. L'accordo può essere a tempo determinato o indeterminato e deve, tra l'altro, definire i tempi di riposo e le misure tecniche e organizzative per garantire la disconnessione, nonché le modalità di esercizio del potere di controllo del datore di lavoro, limitando, dunque, la libertà consentita dal nuovo articolo 4 dello statuto dei lavoratori. Deve, altresì, definire le eventuali condotte disciplinari specifiche che, pur manifestandosi al di fuori dei locali aziendali, possono dar luogo a sanzione disciplinare (ad esempio, condotte nell'utilizzo degli strumenti aziendali, quali app o beni materiali).

Vige, altresì, un principio di parità di trattamento, poiché è garantito al lavoratore in smart il medesimo trattamento retributivo e previdenziale, nonché la copertura assicurativa prevista dalla normativa in tema di salute e sicurezza sul posto di lavoro.

Sono riconosciuti diversi diritti al lavoratore smart, tra cui riveste grande interesse quello eventuale all'apprendimento permanente – long life learning – e alla periodica certificazione delle competenze.

In realtà, si ritiene che proprio questi due diritti siano la chiave di volta dello smart worker del futuro, anche al fine di garantirgli competitività, opportunità di miglioramento lavorativo, ascensore sociale e alle imprese forza lavoro competente, responsabilizzata e dedicata.

La formazione dello smart worker dovrebbe concentrarsi sia sulle soft skills, che sicuramente costituiscono un fattore di miglioramento della qualità del lavoro e di responsabilizzazione del collaboratore sugli obiettivi, sia sulle nuove tecnologie.

Quanto all'irrompere di queste ultime, molti sono critici sulla possibilità che portino nuova occupazione. A parte il fatto che gli esempi storici – dal telaio meccanico al personal computer – dimostrano il contrario, il tema è semmai culturale. L'innovazione tecnologica è il vero booster del mercato. Solo essa è in grado di dare quella sferzata alla produttività e alla creazione di nuovi posti di lavoro, incentivando alla specializzazione, così da creare un circolo virtuoso di investimenti-crescita-competitività che, in assenza di un'adeguata formazione, verrebbe meno. E senza un aumento della produttività – in termini di investimenti, di specializzazione dei lavoratori e di tecnologia – non vi può essere crescita o competitività a livello internazionale.

D'altro canto, siamo convinti che i vincoli formali e burocratici dello smart working, che purtroppo non mancano mai nella legislazione italiana, non impediranno il trend crescente, stimolato dalle ragioni di business (risparmio dei costi determinati, ad esempio, dall'assenza di una postazione di lavoro) e dall'incremento della produttività (stimolata dalla miglior gestione del rapporto tra esigenze della vita privata e lavoro), ma anche dalla necessità o opportunità per le imprese di considerare lo smart working quale elemento essenziale di un processo produttivo ecosostenibile (riduzione dell'impatto ambientale derivante dal minor uso di carburanti fossili per lo spostamento, miglioramento del rapporto vita-lavoro).

Un tale programma può essere anche valorizzato nell'ottica di trasformare la propria azienda in società benefit, ossia quel tipo di società – introdotte dalla legge di Stabilità 2016 – che aggiungono allo scopo di profitto anche finalità di “beneficio comune”, tra cui rientra ex lege il benessere dei dipendenti.

Anche l'esigenza di work-life balance, ossia di conciliazione tra vita privata e vita lavorativa, si pone come obiettivo primario in questo nuovo modello d'impresa. Affinché si realizzi in concreto questo bilanciamento, il lavoro agile è lo strumento ideale.

Gli accordi sullo smart working – da cui dipenderà il suo successo – dovranno pertanto concentrarsi in futuro principalmente sui temi della formazione e dell'ecosostenibilità, ma anche – non da ultimo – della responsabilizzazione.

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