Contrattazione

Dai risparmi ottenuti con lo smart working risorse per finanziare il welfare aziendale

di Mariano Delle Cave e Giovanni Scansani

Il “lavoro da remoto” - impropriamente associato allo smart working, i cui presupposti sono del tutto differenti da quelli in atto in questa fase - potrebbe rivelarsi una fonte di finanziamento del welfare aziendale che nel 2021, in molte aziende, a causa della crisi provocata dalla pandemia, rischia di subire un taglio del budget.

Il ricorso alla remotizzazione di massa del lavoro non avrà diffusamente migliorato le performance aziendali, ma certo avrà comportato alcuni risparmi come, ad esempio, per la voce buoni pasto (non sempre concessi ai lavoratori “in remoto”) e per il lavoro straordinario (non riconosciuto perché chi lavora “agile” lo fa senza precisi vincoli di orario).

Si comprende, allora, la ratio sottostante alla previsione contenuta nell’articolo 1, comma 870, della legge 178/2020 (legge di Bilancio 2021) che mira a far recuperare ai lavoratori pubblici il gap in busta paga creatosi con la “remotizzazione”. Per il (solo) settore statale è previsto che le risorse destinate alla remunerazione delle prestazioni di lavoro straordinario, nonché i risparmi derivanti dai buoni pasto non erogati nel 2020, possano finanziare «nell’anno successivo (2021, ndr), nell’ambito della contrattazione integrativa, i trattamenti economici accessori correlati alla performance e alle condizioni di lavoro, ovvero agli istituti del welfare integrativo».

E per il settore privato? La norma, sia pure valida solo per gli statali, potrebbe essere fonte d’ispirazione per analoghe operazioni di riallocazione dei saving generati dallo smart working emergenziale. Anche qui, infatti, sarà possibile destinare le risorse non utilizzate (buoni pasto non concessi) o non impegnate (straordinari) finanziando on top il welfare aziendale. Questa soluzione potrebbe arginare, almeno nel 2021, il più che probabile venir meno di una delle fonti di finanziamento del welfare: i premi di risultato che, quanto ai target per il 2020 (fissati ante pandemia), non potranno essere corrisposti (verrà quindi meno la loro eventuale conversione in beni e servizi di welfare). In assenza di incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione, richiesti dalla legge 208/2015, il “conto welfare” dei lavoratori che non dispongono di piani on top sulle retribuzioni rischia di andare a zero.

In vista, poi, della diffusione del (vero) lavoro agile nel “new normal”, nella fissazione degli obiettivi per il 2021 le aziende potrebbero fare riferimento proprio allo smart working. Esso è uno degli “indicatori” considerati dall’allegato del decreto interministeriale del 25 marzo 2016 sulla cui base è possibile definire gli indicatori degli incrementi attesi e a fronte dei quali corrispondere i premi (nel 2022).

Un’altra interessante “leva” per finanziare il welfare aziendale potrebbe essere fornita da una quota dell’ammontare degli sconti di fine anno che normalmente le imprese ottengono nelle transazioni con i propri fornitori. In tal caso, aziende e fornitori - perseguendo logiche di mutuo sostegno responsabile - potrebbero prevedere che una parte di tali sconti siano contabilizzati per essere restituiti ai lavoratori in servizi di welfare attraverso processi di “comeback” degli importi così generati. Non per caso alcune imprese attive nel settore dei servizi di supporto per il welfare hanno allestito piattaforme di accounting per la gestione di questi importi che, oltretutto, nelle versioni più evolute, possono in parte essere destinati anche a iniziative di welfare territoriale, finanziando progetti e interventi del terzo settore e avviando percorsi di sharing value con positive ricadute per l’economia dei luoghi dove quelle stesse aziende e i loro fornitori stabilmente operano. È una strada interessante che fa del welfare aziendale un alleato del benessere per i lavoratori e uno strumento di reale responsabilità sociale delle imprese nell’interesse della collettività.

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