Contrattazione

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Rilevanza del nomen iuris ai fini della qualificazione del rapporto
Licenziamento per giusta causa
Gruppo di imprese e licenziamento
Sicurezza sul lavoro, rischio elettivo e responsabilità nell'appalto
Risoluzione consensuale e diritto di precedenza nelle nuove assunzioni

Rilevanza del nomen iuris ai fini della qualificazione del rapporto

Cass. Sez. Lav., 19 novembre 2021, n. 35687

Pres. Negri Della Torre; Rel. De Marinins; Ric. princ. e controric. sec. A.A.; Controric. princ. e ric. sec. F. s.r.l.

Rivendicazione di lavoro subordinato – Indici – Nomen iuris – Valore assorbente – Valutazione – Necessità – Fattispecie: contratto predisposto dal lavoratore e firmato dalla società

Il nomen iuris, pur non avendo valore assorbente, assume comunque particolare rilievo, specie in relazione a quelle ipotesi in cui i caratteri differenziali tra due o più figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili. Quando la volontà negoziale si è concretizzata in un documento ricco di clausole aventi ad oggetto le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi, il giudice deve accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti stesse

NOTA

Un lavoratore, con contratto di lavoro autonomo presso la società F., ricorreva al Tribunale di Roma domandando, da un lato, il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la società e del livello dirigenziale delle mansioni svolte e, dall'altro, la declaratoria di illegittimità del recesso intimatogli in ragione dell'elevato costo del servizio dal medesimo reso, incompatibile con la situazione di crisi in cui versava la Società. Il Tribunale di Roma prima e la Corte territoriale poi accoglievano la domanda relativa alla qualificazione del rapporto, mentre rigettavano quella relativa al licenziamento, valutato legittimo.In particolare, secondo la Corte territoriale, quanto alla subordinazione, era stata correttamente acquisita, e sottoposta al contraddittorio delle parti, la documentazione probante l'esistenza degli indici della subordinazione, quale la soggezione dell' A. al potere direttivo della Società nonché il suo pieno inserimento nell'organizzazione aziendale, mentre risultava del tutto irrilevante il nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto nell'atto costitutivo del medesimo, predisposto dallo stesso A. e sottoscritto per accettazione dalla Società. Quanto, invece, al licenziamento, la Corte riteneva assolto dalla Società l'onere della prova circa la ricorrenza della situazione di crisi invocata a motivo del licenziamento e non contraddetta da altre determinazioni incidenti sui costi aziendali, tenuto conto della non rilevabilità, in relazione al licenziamento, di un fraudolento intento espulsivo o di profili di arbitrarietà.Avverso la decisione della Corte di appello di Roma proponeva ricorso dapprima il lavoratore A. adducendo diversi motivi, tutti (lo si chiarisce sin d'ora) disattesi dalla S.C., e successivamente anche la Società.In particolare, soffermandoci sui soli motivi di ricorso presentati dalla società, questa lamentava l'incongruità logica e giuridica dell'iter valutativo posto dalla Corte territoriale a base del giudizio reso circa la ravvisabilità della subordinazione, con particolare riferimento all'omessa considerazione del nomen iuris attribuito al contratto ed alla ricorrenza dei presupposti giuridici per la qualificazione del rapporto come parasubordinato o autonomo. Ebbene, con la sentenza in epigrafe la S.C. considera il ricorso fondato. Secondo la Corte, infatti, del tutto carente risulta l'iter valutativo posto dalla Corte territoriale a base del giudizio reso in ordine alla qualificazione del rapporto, che incentra tutto sulla valorizzazione del profilo dell'eterodirezione, emerso in sede istruttoria con riferimento alla fase di esecuzione del rapporto, senza attribuire, ai fini del decidere, rilevanza alcuna al dato relativo al nomen iuris, addirittura attribuito dallo stesso A. all'instaurando rapporto nel predisporre il testo del contratto costitutivo del medesimo, poi sottoposto all'accettazione della Società. E ciò in evidente contrasto con l'orientamento accolto in sede di legittimità secondo cui «il nomen iuris, pur non avendo valore assorbente, assume comunque particolare rilievo, in specie in relazione a quelle ipotesi "in cui i caratteri differenziali tra due o più figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili, non potendosi negare che, quando la volontà negoziale si è espressa in modo libero (in ragione della situazione in cui versano le parti al momento della dichiarazione) nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi, il giudice deve accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti stesse».

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 19 novembre 2021, n. 35581

Pres. Negri Della Torre; Rel. Piccone; Ric. E. S.p.A.; Controric. S.F.Giusta causa – Fattispecie: dipendente del supermercato preleva e consuma in loco alcuni prodotti – Licenziamento – Sproporzione – Previsioni del CCNL – Elemento soggettivo – Mansioni affidate – Durata del rapporto – Valutazione del giudice di merito – Necessità

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo

NOTA

La Corte d'Appello di Bologna, riformando parzialmente il provvedimento reso dal giudice di prime cure, giudicava illegittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente di un supermercato che aveva sottratto e consumato prodotti in vendita durante l'esecuzione della propria prestazione lavorativa, condannando la Società al pagamento di un'indennità risarcitoria di dodici mensilità.Secondo la Corte distrettuale la condotta tenuta dal lavoratore non era così grave da giustificare l'irrogazione di una sanzione espulsiva, tenuto conto delle previsioni disciplinari previste dal CCNL applicato e della scala valoriale ricavabile dalla predetta normativa. Tuttavia, secondo i giudici di merito, la mera sproporzione tra addebito e licenziamento non poteva in ogni caso dar luogo al ripristino del rapporto di lavoro (tenuto conto dell'effettiva ricorrenza dei fatti contestati, del loro rilievo disciplinare e della loro imputabilità soggettiva in capo al lavoratore) ma alla sola tutela indennitaria prevista dall'art. 18, co. 5, St. lav. (12-24 mensilità).Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso in cassazione la Società lamentando la congruità del licenziamento rispetto ai fatti contestati e la loro sussumibilità nella nozione legale di giusta causa.Nel rigettare il ricorso, i giudici di legittimità hanno ribadito come il giudizio di proporzionalità, intersecandosi con gli elementi in fatto che connotano la fattispecie, non può costituire oggetto di censura in sede in cassazione. Secondo la Suprema Corte, infatti: «spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro».

Gruppo di imprese e licenziamento

Cass. Sez. Lav., 23 dicembre 2021, n. 41417

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Fresa; Ric. C. S.r.l.; Controric. N.M.G.

Codatorialità – Gruppo di imprese – Unico centro di imputazione di interessi – Elementi costitutivi – Unicità struttura organizzativa e produttiva – Coordinamento tecnico amministrativo – Utilizzo contemporaneo della prestazione

È configurabile l'esistenza di un unico centro di imputazione in presenza di: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

NOTA

La Corte di Appello di Ancona, in riforma della sentenza del Tribunale di Pesaro, condannava in solido le società appellate alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al pagamento in favore di quest'ultima di un'indennità pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto nonché alla regolamentazione previdenziale e assistenziale dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge.La Corte territoriale rilevava che «tra la C. e la C. fosse ravvisabile un unico centro di imputazione giuridica in considerazione della utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle distinte imprese, anche dopo il passaggio della N. alle dipendenze della C. srl e dei rapporti tra i due enti, caratterizzati da commistioni, ingerenze e sovrapposizioni sia sotto il profilo dell'attività imprenditoriale svolta che sotto l'aspetto del personale dipendente», precisando che «la procedura di mobilità era illegittima per non essere stato preso in considerazione il personale dell'intero gruppo economico, con conseguente illegittima determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità che erano stati applicati ad una platea ristretta e parziale dei dipendenti invece che a tutti i lavoratori di gruppo con mansioni fungibili».Le società appellate soccombenti impugnavano, quindi, la sentenza di secondo grado.La Suprema Corte ritiene l'iter argomentativo dei giudici di merito «coerente con le indicazioni del giudice di legittimità».Nella specie, la Corte territoriale «con adeguata ed esauriente motivazione, ha dato atto delle ragioni per cui ha ritenuto dimostrata la sussistenza di un unico centro di imputazione tra i due enti confermata anche dalla interferenza tra l'oggetto sociale di uno che si dimostrava una specificazione delle attività genericamente indicate nello statuto dell'altro, con conseguente comunanza di scopi ed impossibilità di scindere le attività che i dipendenti svolgevano a favore dell'uno o dell'altro ente la cui natura, in concreto, doveva ritenersi imprenditoriale per entrambi».Conclusivamente la Cassazione rigetta il ricorso delle società.

Sicurezza sul lavoro, rischio elettivo e responsabilità nell'appalto

Cass. Sez. Lav. ord. 18 novembre 2021, n. 35364

Pres. Negri Della Torre; Rel. De Marinis; Ric. D.T.N; Controric. A.R.I. S.r.l.

Infortunio – Rischio elettivo – Responsabilità esclusiva del lavoratore – Presupposto – Comportamento abnorme – Necessità – Colpa del lavoratore – Irrilevanza

Appalto – Infortunio sul lavoro del dipendente dell'appaltatore – Responsabilità della committente – Sussistenza

In tema di infortunio sul lavoro, l`esclusiva responsabilità del lavoratore sussiste solo se lo stesso pone in essere un comportamento abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute; essendo invece irrilevante la condotta meramente colposa del lavoratore atteso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei lavoratori.In caso di appalto, in caso di infortunio occorso al dipendente della società appaltatrice, sussiste la responsabilità della società committente nella cui disponibilità permane il lavoratore, essendo essa obbligata ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori (ancorché dipendenti dell`impresa appaltatrice) misure che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l`appaltatrice nell`attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all`attività appaltata.

NOTA

La Corte d'Appello di Torino confermava la decisione resa dal Tribunale di Vercelli e rigettava la domanda proposta dal lavoratore nei confronti del suo datore di lavoro e del committente, presso il cui cantiere svolgeva la prestazione lavorativa in appalto, avente ad oggetto l'accertamento a carico della prima Società della violazione dell'art. 2087 c.c., per non aver il lavoratore ricevuto la formazione dei rischi specifici del lavoro ed a carico della seconda per la mancata segnalazione del pericolo e la condanna di entrambe al risarcimento del danno subito in occasione dell'infortunio sul lavoro occorsogli presso il cantiere della committente, ove, «incaricato dalla Società datrice di smontare alcuni termoconvettori al pian terreno del cantiere stesso, salendo al piano superiore per cercare valvole idrauliche che potessero intercettare acqua residua nei tubi e ivi aprendo una porta, priva di alcuna segnalazione di pericolo, accedeva alla tromba di un ascensore dismesso, nella quale precipitava». La Corte ha ritenuto nel merito infondato l'appello, non trovando riscontro la censura formulata dal lavoratore, secondo cui il primo giudice avrebbe interpretato in maniera errata lo svolgimento dei fatti come emersi nel corso dell'istruttoria, con particolare riferimento alle direttive impartite dal datore di lavoro e ciò in quanto era risultato provato che le direttive impartite ai lavoratori erano quelle di procedere allo smontaggio dei due convettori a soffitto siti al piano terra dell'edificio della committente, dovendosi concludere a tale stregua, e avendo riguardo alla sentenza penale di assoluzione delle due imprese, «che il sinistro si era verificato in luogo ove i due operai non avevano motivo di recarsi né avevano ricevuto ordine di andare così da indurre a considerare il sinistro quale conseguenza di un rischio non prevedibile da parte del datore di lavoro, qualificabile dunque come rischio elettivo e ad escludere in capo alla committente la responsabilità che gli deriverebbe dalla disponibilità del bene, stante la riconducibilità del sinistro – verificatosi all'interno di un edificio dismesso ed in corso di smantellamento ed in un'area nella quale il lavoratore non si doveva recare e nella quale si è avventurato contravvenendo a specifiche direttive impartite, per poi aprire la porta del vano ex ascensore al fine di entrare nel locale, sollevando anche la moquette posta a protezione della porta, il tutto nella quasi totale oscurità – al caso fortuito». Per la cassazione di tale decisione ha fatto ricorso il lavoratore per «violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., imputando alla Corte territoriale l'erroneo apprezzamento degli elementi di fatto utili alla delimitazione dell'area di intervento del ricorrente e dell'obbligo di informazione gravante sul datore e di conseguenza l'incongruità logica e giuridica dell'iter valutativo in base al quale la Corte territoriale stessa ha ritenuto di sollevare la Società datrice dall'onere probatorio circa l'assolvimento degli obblighi informativi e la riconducibilità dell'evento al "rischio elettivo" tenuto conto della nozione accolta da questa Corte» nonché per «violazione e falsa applicazione degli artt. 2051, 2697 c.c.,115 e 116 c.p.c., per l'incongruità logica e giuridica dell'iter valutativo in base al quale la Corte stessa ha escluso la responsabilità della committente».La Corte di Cassazione ha accolto entrambi i motivi ribadendo in primo luogo l'orientamento costante in base al quale «del c.d. rischio elettivo e della conseguente responsabilità esclusiva del lavoratore può parlarsi soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere, restando diversamente irrilevante la condotta colposa del lavoratore, sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento, atteso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei lavoratori» ed in secondo luogo che «è a dirsi sussistente la responsabilità della Società committente nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, essendo essa obbligata ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice, che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata».

Risoluzione consensuale e diritto di precedenza nelle nuove assunzioni

Cass. Sez. Lav., 19 novembre 2021, n. 35667

Pres. Berrino; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.A.+1; Controric. A. S.p.A.

Lavoro subordinato – Dimissioni incentivate – Risoluzione consensuale – Diritto di precedenza nelle nuove assunzioni – Applicabilità art. 15 L. 264/1949 e art. 8 L. 223/1991 – Esclusione

Le dimissioni cd. incentivate, e cioè agevolate da provvidenze o incentivi, analogamente alla mobilità volontaria e al prepensionamento, danno luogo alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e, come tali, non sono equiparabili al licenziamento. Ne consegue che il lavoratore che abbia risolto volontariamente il contratto di lavoro, sebbene su sollecitazione del datore di lavoro e dietro riconoscimento di un incentivo economico, non ha diritto ad essere preferito nelle assunzioni, ex art. 15 della legge n. 264 del 1949 e dell'art. 8 della legge n. 223 del 1991, in quanto è destinatario dell'obbligo legale di riassunzione solo l'imprenditore che abbia licenziato per riduzione di personale.

NOTA

Nella fattispecie in esame la Corte di Cassazione si occupa dell'applicabilità ai casi di dimissioni incentivate delle norme che attribuiscono al lavoratore licenziato il diritto di precedenza nelle eventuali nuove assunzioni del datore di lavoro.Nel caso di specie due dipendenti avevano, dapprima, sottoscritto due verbali di conciliazione con dimissioni incentivate e rinunce anche in relazione al diritto di precedenza nella riassunzione previsto dagli artt. 15 L. 264/1949 e 8 L. 223/1991 e, successivamente, impugnato gli stessi in quanto affetti da dolo o comunque errore in relazione a tali rinunce. Avevano quindi richiesto la declaratoria della sussistenza di tale diritto di precedenza e, in virtù dell'inadempimento della società datrice di lavoro, la condanna di quest'ultima al risarcimento del danno.La Corte d'Appello di Roma, però, aveva respinto tali richieste soffermandosi sul fatto che dalle risultanze istruttorie non erano emerse assunzioni di altri lavoratori a tempo indeterminato e in posizioni equivalenti a quelle dei ricorrenti nel semestre di riferimento, condizione essenziale per l'insorgere dell'invocato diritto di precedenza.Conseguentemente le domande relative alla nullità delle rinunce sono state considerate superate dalla Corte territoriale.Contro tale decisione proponevano ricorso in Cassazione i lavoratori sulla base del rilievo per cui la Corte avrebbe errato nel non ritenere che il diritto di precedenza in parola sussistesse anche nell'ipotesi di mansioni non rientranti nello stesso livello di inquadramento, ma compatibili con la professionalità dei lavoratori licenziati.La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la decisione della Corte d'Appello, seppur sulla base di motivi diversi.Infatti la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale il diritto di precedenza in questione ha come condizione l'esistenza di un licenziamento per riduzione di personale e, in assenza di questo, la relativa normativa non è applicabile. Nel caso di specie, dunque, non essendo le dimissioni incentivate equiparabili al licenziamento il diritto in questione non è sorto in capo ai lavoratori ricorrenti. Le domande relative alla nullità delle rinunce sul punto sono dunque state considerate assorbite.

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