Contrattazione

Politiche attive, il rischio di un’eterna incompiuta

di GiampieroFalasca, GiampieroFalasca,

Le politiche attive del lavoro, abbinate a un sistema di servizi per l’impiego efficiente, sono l’eterno Godot del mercato del lavoro italiano.

Quando nel 1997 il legislatore, con un approccio moderno e riformista, decise di mandare in pensione il vecchio collocamento pubblico statale e di sostituirlo con un sistema di servizi - pubblici e privati - destinati a chi cerca lavoro, nessuno avrebbe mai immagino che, a distanza di 20 anni, il sistema sarebbe rimasto quasi fermo al punto di partenza.

Certamente, se si vanno a leggere le tante norme che si sono succedute, nulla del vecchio sistema è rimasto in piedi e, anzi, il nostro Paese si è dotato di regole coerenti, quanto meno nell’impostazione generale, con quelle dei principali sistemi occidentali.

Queste regole, tuttavia, presentano dei vizi di fondo che hanno finora frenato il decollo del sistema. Il primo, ancora irrisolto, riguarda la frammentazione normativa dei sistemi regionali. La riforma del Titolo V, nata sotto i migliori auspici (avvicinare la Pa ai cittadini, nell’ottica della sussidiarietà), ha prodotto tanti legislatori locali, preoccupati soprattutto di issare la propria bandiera nel sistema legislativo, piuttosto che di concentrarsi nell’amministrazione e nel miglioramento dei servizi sul territorio.

Questa situazione ha impedito per molti anni di affrontare il tema delle politiche attive con una visione che coniugasse le giuste istanze del territorio con la necessità di un coordinamento nazionale.

Questo nodo sembrava essere stato risolto dal Jobs act che, con il Dlgs 150/2015, ha riorganizzato il sistema delle politiche attive del lavoro, pensato come una rete orizzontale composta da soggetti pubblici (ministero del Lavoro e Regioni) e privati (agenzie per il lavoro, terzo settore, eccetera) e coordinata dall’Anpal, un nuovo soggetto che sarebbe dovuto essere il crocevia del nuovo sistema. Purtroppo, a oltre un anno di distanza dalla riforma, i risultati sono modesti.

L’Anpal ha faticato a muovere i primi passi e la spinta politica negativa del referendum sembra aver fatto rinascere istanze regionaliste (pur non essendovi un impatto normativo diretto tra la bocciatura del referendum e le regole istitutive dell’Anpal).

Un altro vizio strutturale del sistema italiano riguarda l’approccio ancora troppo ideologico alla cooperazione con gli operatori privati. L’assegno di ricollocazione ha avuto il merito di riproporre a livello nazionale alcune positive esperienze locali (come la dote unica creata dalla regione Lombardia) ma ha dovuto scontare un vizio di origine che finora si è rivelato una zavorra: tutto il sistema dell’assegno inizia presso il sistema pubblico (che sia il centro per l’impiego o il portale web), in ossequio a un approccio ideologico che identifica i soggetti privati come attori di secondo livello del mercato. Come dimostra il caso della Lombardia, invece, per costruire un sistema efficiente di servizi per l’impiego bisogna coinvolgere in maniera decisa i privati, riconoscendo incentivi economici correlati ai risultati conseguiti ed evitando timori e compromessi che producono solo inefficienze e rischiano di frenare anche idee buone come l’assegno di ricollocazione.

Sul fronte delle risorse, infine, è stata persa anche l’occasione di destinare il contributo dello 0,30% per l’indennità di mobilità all’assegno di ricollocazione, una possibilità che non avrebbe incontrato l’opposizione delle imprese disposte a sostenere piani operativi di ricollocazione come si legge nelle «proposte per le politiche del lavoro» siglate a settembre 2016 da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil.

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