Contrattazione

Voucher, addio (costoso) con quattro alternative

di Alessandro Rota Porta

Con l’addio ai voucher deciso dal Governo con il decreto legge 25/2017, imprese e famiglie fanno i conti con la valutazione delle possibili alternative per continuare a pagare i “lavoretti”, dal giardinaggio alle faccende domestiche.

L’abrogazione improvvisa - avvenuta senza prevedere un periodo transitorio – ha gettato scompiglio e porta a pesanti conseguenze, soprattutto in quei settori dove il ricorso ai buoni lavoro era diventato di prassi: dai pubblici esercizi allo stewarding nelle manifestazioni calcistiche, solo per fare alcuni esempi. Effetti che sono ricaduti non solo sui committenti ma anche sugli stessi beneficiari, peraltro, senza che vi siano alternative in grado di rispondere proprio a quelle esigenze di flessibilità che il lavoro accessorio garantiva.

Con questa valutazione sarebbe fuorviante giocare sul termine “flessibilità” traducendolo nell’accezione “precario”: stiamo parlando di lavori spot che – nella maggior parte dei casi – non possono essere tradotti in contratti di lavoro subordinato part-time, poiché non è possibile definirne a priori l’esatta entità delle prestazioni né in contratti di lavoro a chiamata, disciplinati in rare realtà contrattuali ovvero relegati a poche categorie soggettive e ad alcune quantomeno vetuste casistiche oggettive: basti pensare che in assenza di regolamentazione contrattuale occorre riferirsi a un’elencazione contenuta in una tabella del 1923.

Allora, quali sono le alternative percorribili? Oltre al lavoro subordinato diretto, con tutti gli adempimenti e i costi che trascina con sé, si potrebbe ricorrere alla somministrazione di lavoro, per il tramite della agenzie autorizzate; oppure – se le caratteristiche del rapporto lo consentono – alle collaborazioni, siano esse stipulate attraverso contratti co.co.co ovvero a partita Iva: ovvio, dovranno essere svincolate dai canoni del lavoro subordinato e da quelli della etero-organizzazione, delineata dal Jobs act.

Anche i soggetti che erano destinatari dei voucher non potranno più godere di alcuni benefici: per esempio, i percettori di misure di sostegno al reddito, che non potranno più cumulare lo stipendio derivante da un rapporto di lavoro con i sussidi, come invece potevano fare con i buoni lavoro (fino a 3mila euro annui); ma, in genere, chi percepiva i voucher - senza imposizione fiscale e senza incidenza sul proprio stato di disoccupazione o di inoccupazione - subirà certamente delle conseguenze, anche su eventuali prestazioni assistenziali.

Quel che lascia perplessi e disorienta è la visione e la gestione operata dal legislatore rispetto alla disciplina del lavoro accessorio: prima gli operatori sono stati dotati di uno strumento, il cui campo di applicazione, nel tempo, è stato addirittura allargato e potenziato; ora, di punto in bianco, è avvenuta una soppressione totale, senza aver fornito un’alternativa confacente a soddisfare determinati fabbisogni.

Un altro conto sono gli abusi: certamente da combattere, non solo con riferimento all’utilizzo distorto dei voucher, ma nei confronti di tutte quelle situazioni patologiche del mercato del lavoro che si pongono in violazione delle norme di legge.

Tutto ciò, senza dimenticare come la stessa legge delega del Jobs act prevedesse espressamente di “estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi”: obiettivo opposto a quello che si è realizzato.

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