Contrattazione

Nei contratti a termine la causale non fa tutela

di Giampiero Falasca

La reintroduzione delle “causali” nei contratti a termine avrà un effetto certo – l’incremento del contenzioso – senza aggiungere alcuna reale tutela per i lavoratori.

Questa previsione non si basa su una visione preconcetta della misura allo studio del Governo Conte, ma scaturisce dall’osservazione dei risultati prodotti dalle causali negli oltre dieci anni durante i quali sono state in vigore.

È utile ricordare che, fino al 2014, chiunque usava un contratto a termine (o di somministrazione), aveva l’obbligo di giustificare per iscritto le ragioni (in gergo, le “causali”) di carattere temporaneo sottese alla scelta di un rapporto di quel tipo.

L’indicazione scritta delle causali, tuttavia, generava grandissimi problemi applicativi in quanto il giudice del lavoro aveva un potere enorme: se riteneva che la ragione fosse generica, poco motivata o riferita a fatti inesistenti, poteva convertire a tempo indeterminato il contratto, condannando anche il datore di lavoro a pagare un corposo risarcimento del danno.

La discrezionalità del giudice nello svolgimento di questa valutazione era amplissima: per alcuni tribunali era ritenuta esaustiva una dicitura sintetica; per altri, invece, occorreva un testo ampio e dettagliato; per altri ancora, bisognava collegare il rapporto a termine con elementi oggettivi. Tali e tante erano le opzioni in campo che, con amara ironia, qualcuno aveva definito la scrittura della causale come un “genere letterario”.

Ne veniva fuori un sistema del tutto irrazionale e profondamente ingiusto che non colpiva i veri abusi, ma puniva solo i datori di lavoro meno attenti a un aspetto meramente formale: un caso emblematico di ingiustizia erano i contratti di un giorno convertiti a tempo indeterminato per genericità della causale.

Un sistema del genere generava un potentissimo incentivo al contenzioso per i lavoratori che, a fronte della sostanziale assenza di costi, non avevano nulla da perdere ad avviare una causa dopo la fine del contratto.

Il decreto Poletti del 2014 (anticipando il Jobs act) ha cancellato questo sistema e ha introdotto un meccanismo che, senza togliere alcuna garanzia per i lavoratori, rende molto più facile individuare cosa è lecito e cosa non lo è, in quanto si basa su semplici soglie numeriche (limiti massimi di quantità e durata dei contratti).

La reintroduzione della causale riporterebbe dentro il nostro sistema giuridico un altro tasso di formalismo, rivitalizzando l’indotto giudiziario connesso al contenzioso, senza alcun effettivo beneficio per chi lavora.

Se il Governo vuole perseguire l’obiettivo di contenere il ricorso al lavoro a termine può arrivarci utilizzando strumenti molto più moderni ed efficienti, ad esempio calibrando diversamente i limiti oggettivi che già esistono (il tetto massimo di utilizzo, il numero di proroghe, la durata massima...).

Operazione, questa, da compiere comunque con grande cautela, perché il mercato del lavoro ha bisogno di una flessibilità sicura e regolamentata come quella offerta dai contratti a termine e di somministrazione, per evitare pericolose fughe verso strumenti che danno tutele molto meno solide ai lavoratori (appalti illeciti, false collaborazioni, eccetera).

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