Contrattazione

Rider «autonomi» ma servono tutele

di Mauro Pizzin

Per tentare di regolare il fenomeno dei rider - sotto i riflettori dopo il caso Foodora e che restano lavoratori autonomi - andrebbe fornito un sistema di garanzie o, in alternativa, si potrebbe ricorrere ai vecchi voucher. Sono alcune delle riflessioni emerse durante il convegno “Quale lavoro, quali diritti? La gig economy”, organizzato da Guida al Lavoro e tenutosi ieri nella sede del Sole 24 Ore, in anteprima rispetto al festival dei consulenti.

Introdotta in un primo momento nella bozza del “Decreto dignità” e poi rimessa alla negoziazione delle parti sociali, la disciplina della cosiddetta gig economy ha fatto da filo conduttore all’evento anche perché strettamente connessa con un sistema economico in cui l’innovazione prevale ormai sull’economia tradizionale e il confine tra lavoro autonomo e subordinato rischia di assumere contorni indefiniti. «Basti pensare - ha sottolineato Domenico Bodega, preside della facoltà di economia dell’Università Cattolica di Milano per inquadrare il contesto di riferimento - che a livello comunitario ci si è già posti il problema di regolare diritti e responsabilità dei robot, definite “persone elettroniche”: è chiaro che il problema della tutela dei lavoratori non può che preoccupare». E questo nonostante i numeri ancora positivi della “ricca” Lombardia: secondo il rapporto realizzato dall’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, che sarà presentato domani al festival, si tratta della regione che ha guidato la risalita dell’occupazione nazionale con un tasso di occupati fra i 15 e 64 anni del 67,3%, mentre quello nazionale sconta un ritardo di 0,6 punti percentuali.

Sul punto della gig economy, se il legislatore poco ha fatto, ferma è rimasta anche la giurisprudenza: la stessa sentenza del tribunale di Torino che non ha riconosciuto la subordinazione a 11 rider operanti per l’azienda tedesca Foodora non è rivoluzionaria. «È stato ribadito un principio applicato ai pony express nel 1991 - ha confermato Giampiero Falasca, avvocato partner dello studio legale Dla Piper -. La verità è che quello che ha fatto scalpore della decisione di Torino è che sono stati considerati autonomi lavoratori pagati malissimo, ma il livello del compenso non impatta sulla decisione. Sono convinto, peraltro, che il caso non sarebbe scoppiato se non si fossero eliminati i voucher».

Anche per Fiorella Lunardon, avvocato partner Studio Tosi e associati e ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Torino, «il giudice non poteva che decidere così per una questione di fedeltà al sistema e all’articolo 2093 del Codice civile. Del resto, perché ci sia lavoro subordinato va provata l’eterodirezione, mentre i rider sono liberi di decidere se mettersi a disposizione o meno. Quanto alla possibilità di normare il fenomeno, ritengo preferibile l’introduzione di un sistema di garanzie minimaliste, superando il pregiudizio solo italiano che per avere delle tutele bisogna essere lavoratori subordinati».

Secondo Isabella Covilli Faggioli, presidente della Aidp, «bisogna stare attenti a non confondere la gig economy con industria 4.0. Nel secondo caso si parla di flessibilità richiesta dalle imprese e che si concretizza essenzialmente nello smart working, mentre il mondo della gig economy riguarda quelli che noi chiamavamo un tempo “lavoretti” e che non possiamo pensare di normare secondo le regole classiche della stabilità: qui il problema è se diventano il mezzo di sostentamento della famiglia, lavoro vero».

Perplessità sono state espresse anche da Marina Calderone, presidente dell’Ordine nazionale dei consulenti del lavoro. «Dopo il lavoro agile - questa la sua provocazione - ora stiamo cercando di definire il lavoro “agilissimo”, ma non mi sembra un’operazione facile anche perché il sistema sta rapidamente mutando gli scenari. Credo che le priorità siano altre: bisognerebbe intervenire sulla struttura attuale del mondo del lavoro, migliorando i servizi e spingendo sulle politiche attive. Sarei favorevole, piuttosto, a inasprire le sanzioni a carico di chi fa ricorso al lavoro nero, escludendolo anche per anni dagli appalti pubblici».

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