Contrattazione

Lavori digitali, dalla Regione Lazio una legge ad hoc

di Aldo Bottini

Mentre a livello nazionale si continua a discutere di come regolamentare il lavoro dei riders, la Regione Lazio opera una fuga in avanti e approva una sua autonoma disciplina. La legge regionale 4/2019 (pubblicata sul bollettino ufficiale della Regione il 16 aprile) contiene «disposizioni per la tutela e la sicurezza dei lavoratori digitali», e si propone obiettivi dichiaratamente piuttosto ambiziosi e che trascendono i confini regionali: tra gli altri, «migliorare la trasparenza del mercato del lavoro digitale» nonchè «contrastare il lavoro non sicuro e ogni forma di diseguaglianza e di sfruttamento».

Quando però dalle dichiarazioni di principio si passa alle disposizioni precettive, si incontrano non pochi dubbi e criticità. Innanzitutto la stessa definizione di lavoratore digitale si presta a ricomprendere situazioni che vanno ben oltre il lavoro dei riders: «lavoratore...che, indipendentente dalla tipologia e dalla durata del rapporto di lavoro, offre la disponibilità della propria attività di servizio all'impresa, di seguito denominata piattaforma digitale, che organizza l'attività al fine di offrire un servizio a terzi mediante l'utilizzo di un'applicazione informatica, determinando le caratteristiche del servizio e fissandone il prezzo».

A questi lavoratori devono essere garantite tutele in tema di salute e sicurezza che dovranno essere individuate dalla Giunta regionale con una propria delibera. Sono poi previsti diritti di informazione (e di formazione) sulle modalità di svolgimento dell'attività e sui relativi rischi. Tra i contenuti dell'informativa dovuta, anche le «modalità con cui l'algoritmo determina l'incontro fra la domanda e l'offerta di servizio», il che appare piuttosto problematico, posto che potrebbe coinvolgere profili di segreto industriale.

Ma i problemi maggiori sorgono quando la legge regionale si spinge a dettare regole sul compenso dovuto ai «lavoratori digitali». Qui la norma prescrive un compenso «a tempo», non inferiore «alla misura oraria minima determinata dai contratti collettivi di lavoro sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative», con espresso divieto di cottimo e con diritto a una maggiorazione del compenso orario «nei casi, nella misura e secondo le modalità determinate dai contratti collettivi». Ci si inoltra in questo modo sul terreno della regolamentazione del rapporto di lavoro, con conseguente elevatissimo rischio di incostituzionalità, considerato che l'ordinamento civile (nel quale rientrano i rapporti contrattuali) è materia riservata dall'articolo 117 della Costituzione alla legislazione esclusiva dello Stato. Del resto, il cottimo è una delle forme di possibile retribuzione del lavoratore previste dal codice civile, il che rende ancor più evidente il contrasto.

Qualche perplessità suscitano anche, al di là delle buone intenzioni, le disposizioni in materia di tutele assistenziali e previdenziali. Non si può infatti non considerare che il campo di applicazione delle assicurazioni obbligatorie in materia di lavoro è delineato dalla normativa nazionale, e ne appare problematica una estensione “flessibile” regione per regione. La previsione di possibili “convenzioni” con Inps e Inail contenuta nella legge regionale stessa non sembra sufficiente a risolvere il problema. Senza contare che anche la previdenza sociale è materia riservata dalla Costituzione alla legislazione esclusiva dello Stato.

Non si può infine non rilevare come, al di là delle considerazioni più strettamente giuridiche, appaia piuttosto incongruo pensare che un'attività imprenditoriale che si svolge con caratteristiche uniformi su tutto il territorio nazionale possa trovarsi ad affrontare regolamentazioni difformi (con relative sanzioni per la loro violazione, come nel caso della legge laziale) a seconda della regione in cui si trova a operare.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©