Contrattazione

Nel post pandemia più flessibilità per un lavoratore su due

di C.Cas.

«Nel post pandemia una delle questioni centrali sarà il cambiamento del mercato del lavoro. Cominciamo a vederne già i segnali, che sono qui per rimanere per sempre». Per il professor Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, «con la fluidificazione di certe mansioni verranno a cadere una serie di squilibri di tipo territoriale. A determinare tutto ciò sarà il mercato e la legge domanda offerta».

Dal momento che le retribuzioni sono molto diverse, non solo da paese a paese, ma anche all’interno degli stessi paesi, questo cosa significa?
Se tu puoi fare un certo mestiere a Palermo, Bari o New York è improbabile che, in prospettiva, l’ingegnere che lavora in Sicilia e fa lo stesso lavoro di quello che lavora a New York guadagni meno della metà: con il progresso della tecnologia e il digitale è un sistema che non reggerà più nei casi in cui il mestiere è lo stesso. Si verrà a creare un mercato del lavoro più globale e fluido che andrà a omogeneizzare le retribuzioni in tutto il mondo. Diventerà un mercato del lavoro sempre meno legato al territorio, dove si allungano le reti di talenti.

Cambierà anche il recruiting?
Il lavoro da remoto accentuerà la differenza nel recruiting a seconda di ruoli, mansioni e competenze. Ci sono infatti mansioni dove c’è la possibilità di fare lavoro da remoto full time e questo porterà a rivedere le assunzioni sui mercati locali. Ma stiamo parlando di una parte molto limitata dei lavori. I lavoratori che possono lavorare completamente da remoto hanno un mercato molto più fluido. Per determinate professioni, come certe tipologie di ingegneri che si occupano di dati, algoritmi, machine learning, applicati alle diverse scienze, grandi differenze salariali tra territori, in prospettiva, sono poco sostenibili. Questo discorso vale, però, per un certo tipo di mercato del lavoro.

Per tutti gli altri, che alterneranno lavoro in presenza e in sede, facendo smart working, invece, è ipotizzabile la prospettiva di una revisione delle buste paga in base al luogo da cui si lavora?
Non facciamo confusione. Prendiamo il caso di Google. La società già aveva il suo smart working e lo ha ribadito nel tempo. Non è però lo smart working il punto, quando la società dice pensiamo di riconteggiare gli stipendi. Il punto è spiegare come mi colloco sul mercato del lavoro locale al giusto livello di retribuzione, quando vengono assunte persone che lavorano al 100% da remoto. È, evidentemente, una cosa molto diversa dal dire penalizzo chi fa smart working. Tra l’altro tutte le multinazionali utilizzano tool per calcolare i livelli retributivi corretti in base ai paesi dove lavorano le persone.

Le dinamiche internazionali avranno un impatto anche in Italia?
In Italia abbiamo una normativa chiarissima che vieta penalizzazioni in busta paga per gli smart worker. Non si possono fare i conti in tasca ai lavoratori e dire, se lavori dalla Brianza e vuoi continuare a lavorare da lì, allora, visto che il costo della vita è più basso che a Milano, ti riduco lo stipendio. Ripeto, la normativa è chiarissima sul punto.

Quanti smart worker ci lascerà la pandemia?
Lo smart working vero dà ai lavoratori grande flessibilità di orario e luogo, sempre gravitando attorno a un ufficio e a una sede. Che poi la persona stia a Bologna o Brescia, parlando dell’Italia, non è importante perché il lavoro è definito per obiettivi. Questo ragionamento teorico, finora, a livello globale era possibile per il 30% dei lavori, ossia quelli che si possono fare da remoto. Le percentuali cambiano un po’ nei diversi paesi, a seconda del peso di manifatturiero, servizi e terziario avanzato. Negli Stati Uniti ormai è già così e anche in Italia, come in altri paesi, si andrà verso questa prospettiva.

Cosa dicono le rilevazioni per l’Italia?
Possiamo stimare il numero di smart worker che ci lascerà la pandemia in 6 milioni e mezzo, su 18 milioni di lavoratori dipendenti. Se poi vogliamo guardare al potenziale bacino, questo si amplia fino a oltre 8 milioni di persone, un numero che si avvicina alla metà dei dipendenti. Già oggi ne abbiamo 6,5 milioni che lavorano in questo modo e continueranno così anche dopo il periodo emergenziale, con equilibri e tempi diversi, a seconda delle esigenze delle organizzazioni. Qualcuno lo farà un giorno a settimana, la maggior parte molto di più, fino a 3 giorni. L’asticella, dai primi dati emersi dalle nostre ultime rilevazioni, si è spostata verso la remotizzazione del lavoro. Al momento la tecnologia ha ancora dei vincoli, ma di qui a poco, 5 o 6 anni diciamo, si potrà immaginare di dare un certo livello di flessibilità a un lavoratore su 2. La pandemia ha fortemente accelerato un cambiamento che era già in corso nelle economie avanzate. In futuro tutti saranno misurati sui risultati e questo renderà possibile per i lavoratori essere messi in una situazione che dà il massimo comfort, dal punto di vista anche della vita privata e degli spostamenti.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©