Contrattazione

Sui posti di lavoro turn over a livelli record, ma riguarda solo i talenti

di Cristina Casadei

Multinazionali e grandi aziende non hanno dubbi: quest’anno assisteremo a un turn over mai visto prima. Riguarderà non tutta la popolazione aziendale ma la fascia di quelli che sono indicati come alti potenziali e gli high skilled workers. A dirlo, in media, a livello globale sono il 70% dei 1.736 esperti di risorse umane e gli 8.244 lavoratori, di 17 paesi, che hanno partecipato alla ricerca annuale Global Talent Trends del 2022 di Mercer. In Italia le aziende sono 106: di queste il 36% hanno tra 500 e 999 addetti, il 51% tra 1.000 e 9.999 e il 13% più di 10mila. Nel campione italiano, parla di turn over una quota ancora più alta, pari al 72%. Quella che Mercer definisce una tempesta perfetta creerà un dinamismo molto forte a determinati livelli delle organizzazioni. Si tratta di una sfida tutt’altro che semplice perché, come ci spiega l’amministratore delegato di Mercer in Italia, Marco Valerio Morelli, «è molto facile replicare un’offerta economica tra 2 concorrenti, molto difficile replicare un ambiente dove ci sono elementi di attenzione ed ascolto, leve per migliorare l’employer experience e per trattenere e attirare le persone. Nelle aziende è necessario lavorare sul concetto del purpose, mantenere un’organizzazione del lavoro agile e ridisegnarla recuperando quel lavoro di squadra che la pandemia ci ha fatto lasciare da parte», dice Morelli.

Quando si parla di turn over bisogna però precisare che interesserà «soprattutto i talenti che sentono la necessità di cambiare e crescere - sottolinea Morelli -. Con la progressiva uscita dalla fase pandemica, grazie alle vaccinazioni, molti scelgono di rimettersi in gioco e di voler provare nuove esperienze, animati dal bisogno di apprendimento e crescita. Va però detto che nelle grandi organizzazioni rappresentano circa il 5% della popolazione aziendale. Il turn over interesserà anche gli high skilled workers che sono in media intorno al 15%, ma non il resto della forza lavoro, rappresentata da una quota tra il 40 e il 50% che appartiene alle fasce average e dalla restante parte che svolge attività standard o robotizzabili».

In questo quadro generale, la ricerca di Mercer delinea diversi macro trend, incrociando la voce dei manager e quella dei lavoratori. Innanzitutto «c’è una profonda attenzione nella lettura dell’organizzazione in relazione a tutti gli stakeholder, inclusi i lavoratori, che è stata accentuata ulteriormente dalla pandemia. L’azienda non è più un soggetto avulso ma viene sempre più sentita come parte di un contesto sociale, economico, civile, e deve sì essere profittevole, ma anche soddisfare le aspettative della catena degli stakeholder su temi come la sostenibilità in senso allargato, o la diversity, che sono sempre più elementi centrali nella gestione delle persone». Facendo parlare qualche dato, il 96% dei lavoratori si aspetta che la propria azienda abbia un programma di sostenibilità, mentre il 98% degli executive ha tra le priorità pratiche di lavoro responsabile. «In questo gli hr manager in Italia scontano una certa debolezza, perché solo uno su tre ha ridefinito le priorità mettendo al centro la sostenibilità», spiega Morelli.

La strategia più votata dagli hr manager italiani per attrarre e trattenere i talenti è investire nella parità salariale: a dirlo è il 45% degli intervistati, un dato in linea con quello globale. L’Italia, con una quota del 46% è anche al primo posto tra i paesi che intendono offrire programmi di mobilità legati a obiettivi di diversità e inclusione, mentre il resto del mondo è più focalizzato a implementare l’offerta di “work from anywhere” in generale: un tema che riguarda il 46% dei manager nel mondo, contro il 39% di quelli in Italia. A questo proposito emerge che il 63% dei lavoratori chiede di lavorare in società dove c’è lo smart working, mentre l’85% degli hr manager è preoccupato per il deterioramento della cultura aziendale che la remotizzazione può portare. Mettendo a confronto manager e lavoratori, la loro percezione cambia quando si chiede quali siano i fattori che attirano le persone verso la propria azienda. Per i manager, soprattutto la possibilità di carriera, come dice il 42%, e poi i benefit legati al benessere e alla salute, oltre alla brand reputation. Per i lavoratori, al primo posto c’è l’opportunità di imparare e crescere, a pari merito con i giorni di vacanza concessi, il lavoro da remoto ha un ruolo molto importante, mentre le possibilità di carriera arrivano solo al quinto posto.

Se andiamo a vedere le risposte dei lavoratori, tra gli argomenti prioritari si trova proprio il benessere. Su questo capitolo il 27% degli executive dice di aver ottenuto risultati misurabili a seguito di investimenti in salute e benessere, mentre il 25% delle aziende sta introducendo strategie di benessere mentale ed emozionale. Il tema dei temi, oggi, però è sicuramente la formazione, con l’upskill e il reskill dei lavoratori, il cui obiettivo è la loro occupabilità, tanto nell’organizzazione quanto all’esterno. L’89% delle imprese investe in strumenti di analisi e identificazione delle competenze, basati sull’intelligenza artificiale. Un lavoratore su cinque, però dice di non essere convinto rispetto al reskilling. «La strategia su questo capitolo richiede di preparare molto prima le competenze che poi serviranno per supportare il cambiamento dell’organizzazione - osserva Morelli -. Se le grandi aziende stanno lavorando per cogliere le opportunità future, tra cui anche quelle del Pnrr sull’upskilling, nelle realtà più piccole si investe ancora poco nelle competenze delle persone rilevanti per il business e ci si limita alla tradizionale formazione finanziata e generalizzata».

Sotto la lente

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©