Contrattazione

Dalla chimica ai meccanici, boom di rinnovi contrattuali

di Cristina Casadei

I primi mesi di quest’anno, nella contrattazione, ce li ricorderemo per la chimica farmaceutica, l’edilizia, gli autoferrotramvieri, l’energia e petrolio, l’elettrico e il settore minerario, solo per citare alcuni settori che hanno rinnovato il contratto di lavoro. Se poi andiamo un po’ più indietro nel tempo ritroviamo la metalmeccanica, i multiservizi, la sanità privata, tutto il sistema moda. Alcuni esempi che raccontano come nei rinnovi si osserva un’inversione di tendenza che, nel privato, ha ribaltato la quota di contratti scaduti e contratti rinnovati. Il rapporto, che in passato era più 60%-40%, adesso è infatti diventato 40%-60%, secondo una rielaborazione dei dati Cnel fatta dal dipartimento contrattazione della Cisl, escludendo lavoro domestico e agricolo. Se il terziario ha tutti i tavoli aperti, da Confcommercio a Federdistribuzione, Confesercenti, Coop, con i contratti scaduti da qualche anno, così come il turismo, nel medione generale, il contributo più rilevante a questa nuova fotografia arriva dall’industria.

Vediamo. I lavoratori dipendenti ai quali si applica uno dei 60 contratti collettivi nazionali del sistema Confindustria sono quasi 5 milioni e mezzo. Ad oggi sono oltre 4,5 milioni, quindi quasi l’86% del totale, gli addetti che hanno un contratto collettivo in vigore. Se vogliamo guardare a quest’ultima fase, da maggio del 2020, quando è iniziata la presidenza di Carlo Bonomi, ne sono stati rinnovati 36. Andando ancora più nel dettaglio dei dati, sono meno di 500mila (il 9 per cento del totale) i lavoratori interessati da contratti scaduti da poco tempo, non oltre 12 mesi. Nel complesso, quindi, il 95% dei lavoratori ha un contratto che si rinnova in tempi fisiologici. I ritardi più lunghi, ovvero superiori a 24 mesi, interessano 270mila lavoratori, il 5 per cento del totale, e riguardano il turismo, lo spettacolo e l’ospedalità privata.

Due gli elementi da considerare: il primo riguarda il fatto che, pur in mezzo a tante difficoltà che sono nate in questi due anni del Covid, alla fine il sistema delle regole, ossia il Patto della fabbrica, ha consentito di fare i rinnovi. Il secondo elemento è sicuramente il segnale dato sulla centralità della contrattazione, dove sono state risolte anche le situazioni storicamente più complesse, tra cui vale la pena ricordare la sanità privata e il multiservizi. Sul primo punto va detto che, tanto durante la fase inflattiva più bassa, che durante quella più alta, considerando i rinnovi contrattuali sottoscritti dal 2018, l’anno del Patto per la fabbrica, Confindustria stima un aumento medio delle retribuzioni contrattuali del 4,9% nel triennio 2018-2021. Nello stesso periodo, l’inflazione, misurata a consuntivo dall’Ipca, al netto degli energetici, considerando anche il consuntivo 2021 è stata del 2,8%. L’aumento retributivo sembra quindi essere superiore a quello dei prezzi, e secondo i calcoli dell’ultimo rapporto del Centro Studi, nel periodo tra il 2015 e il 2020, il gap tra le retribuzioni e l’andamento dei prezzi è stato di un +5%. Uscendo dal solo recupero salariale - che rischia di risaltare un approccio esattoriale, ormai un po’ datato -, per esprimere il loro potenziale i contratti sono chiamati ad aprirsi, anche per reciproca convenienza delle parti, a ragionare di sviluppo, innovazione, logiche di settore, politiche occupazionali, economiche con cui regolare il lavoro anche lungo la filiera. Trovando le convergenze, attraverso una continuità di dialogo che da molti anni ormai sperimenta la chimica farmaceutica e verso la quale tendono anche altri, come i metalmeccanici.

Per salvare i salari dall’inflazione Cgil, Cisl e Uil, hanno cercato di portare avanti diverse strategie. Per il segretario confederale della Cisl, Giulio Romani, bisogna agire in due direzioni: «La prima è rivedere la politica di redditi perché è l’unico metodo per contrastare la spirale inflazionistica. La seconda è favorire la diffusione di un secondo livello negoziale che redistribuisca la produttività che viene realizzata in azienda». Tiziana Bocchi, segretaria confederale della Uil, è convinta che «nell’industria, tutto sommato, la contrattazione ha retto. Anche il Patto per la fabbrica su cui abbiamo discusso per il problema dell’inflazione perché l’Ipca al netto dei costi energetici importati non è l’indicatore più adeguato». Anche una volta rinnovati i contratti, però, «resta un problema salariale complessivo - rileva la sindacalista - e proprio per questo la nostra proposta è stata, ed è, la detassazione degli aumenti e il rafforzamento della contrattazione decentrata. Con la detassazione dei premi di risultato».

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