Previdenza

I risparmi restano alle Casse

di Gianni Trovati

La spending review può chiedere alla Cassa nazionale dei dottori commercialisti di tagliare le proprie uscite di funzionamento, ma non di riversare i bilanci al risparmio dello Stato.

Con la sentenza 7/2017 depositata ieri dalla Corte costituzionale (presidente Grossi, relatore Carosi) la Cassa di previdenza oggi guidata da Walter Anedda chiude una battaglia pluriennale, avviata dall’indomani della spending review di Monti del 2012 e passata attraverso il Consiglio di Stato che nel giugno 2015 ha portato la questione sui tavoli dei giudici delle leggi. Per questa ragione la sentenza costituzionale si occupa in modo specifico dei commercialisti, ma fissa un principio che vale per tutte le Casse di previdenza private: ora bisognerà vedere se sarà lo Stato ad adeguare tutte le proprie richieste alle indicazioni arrivate dai giudici delle leggi, o se per anche le altre Casse dovranno portare avanti la battaglia di carta bollata fino alla Corte costituzionale (iter che altri enti avevano già avviato, ma in qualche caso senza ottenere la remissione alla Consulta).

Tutto nasce, si diceva, dalla spending review di Monti, scritta nel decreto 95 del 2012. L’articolo 8, comma 3 di quel provvedimento ha presentato a tutti gli enti inclusi nell’elenco Istat della pubblica amministrazione una doppia richiesta: ridurre del 5% nel 2012 e del 10% dal 2013 (rispetto ai livelli del 2010) i propri «consumi intermedi», vale a dire in pratica le spese di funzionamento, e versare i risparmi al bilancio nello Stato. La prima richiesta è legittima, spiega la Consulta, perché rientra nel «coordinamento della finanza pubblica» che lo Stato deve assicurare, mentre la seconda va cancellata perché limita in modo irragionevole la libertà economica dei cittadini (articolo 3 della Costituzione), viola i diritti previdenziali (articolo 38) e non rispetta il principio del buon andamento della Pa (articolo 97).

A spingere a questa conclusione i giudici delle leggi c’è una lettura della condizione delle Casse che privilegia la sostanza sulla forma. Il fatto che questi enti non ricevono alcun finanziamento pubblico, ma vivono sulla base dei contributi obbligatori versati dagli iscritti, prevale insomma sulla loro inclusione nell’elenco Istat della Pa. Quest’ultima nasce dall’esigenza di trasmettere all’Unione europea informazioni comparabili e complete sui conti economici nazionali, che ovviamente comprendono anche i contributi previdenziali, ma non si traduce nell’applicazione automatica alle Casse degli obblighi previsti per le altre pubbliche amministrazioni.

Per motivare questa decisione la Corte richiama non solo la natura privata delle risorse delle Casse, ma anche le caratteristiche dei meccanismi previdenziali previsti nella legge madre di questi enti (è il decreto legislativo 509 del 1994). Mentre la previdenza pubblica paga le pensioni con i contributi di chi lavora, nelle Casse l’assegno è basato sulla capitalizzazione dei versamenti, che vengono gestiti dalla Cassa e poi ritirati dal professionista a riposo in base ai coefficienti di trasformazione. In quest’ottica, l’obbligo di girare allo Stato i risparmi imposti dalla spending review non rappresenta un vincolo più o meno virtuoso alla gestione degli enti, ma finisce per tradursi in un colpo diretto sulla pensione dei singoli iscritti i cui contributi sono stati nel tempo coinvolti dalla tagliola.

Ma i diritti previdenziali dei singoli iscritti alle Casse, riflette la Corte, sono più importanti del «generico interesse» del bilancio dello Stato, e di conseguenza la richiesta della spending review finisce per rivelarsi «sproporzionata» e «irragionevole».

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