Previdenza

Pensioni, ricorsi anche senza importi

di Mauro Pizzin

Nelle cause previdenziali la mancata quantificazione nella fase introduttiva del procedimento del valore della prestazione oggetto del contenzioso non comporterà più l’inammissibilità del ricorso.

Con la sentenza n. 241/17, depositata ieri, la Consulta ha dichiarato, infatti, costituzionalmente illegittima per manifesta irragionevolezza la disposizione contenuta nell’ultimo periodo dell’articolo 152 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura civile, introdotta dall’articolo 38, comma 1, lettera b), n. 2, del Dl 98/11, con l’obiettivo di evitare, nei giudizi per prestazioni previdenziali, liquidazioni di spese processuali esorbitanti rispetto al valore della controversia.

La Consulta è intervenuta dopo che la sezione Lavoro della Corte d’appello di Torino, con ordinanza del 6 marzo 2015, aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale relativamente alla disposizione sopra citata nell’ambito di un giudizio per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità di un nonno in favore di un nipote, da lui mantenuto in vita e con lui convivente, ancorché i genitori di quest’ultimo non fossero totalmente privi di reddito.

Al termine del giudizio di primo grado, avviato dalla madre del ragazzo e concluso con il ripristino dell’erogazione della reversibilità al figlio da parte dell’Inps, quest’ultimo aveva ricorso in appello eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per il mancato rispetto dell’obbligo di indicazione nell’atto introduttivo del processo del valore della prestazione richiesta.

Secondo la Corte d’appello l’obbligo dichiarativo introdotto dall’articolo 152 portava a una limitazione formale all’accesso alla tutela giurisdizionale «irragionevole e ingiustificata rispetto al fine del contenimento delle spese», con violazione degli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, nonché dell’articolo 6, comma 1, della Cedu.

Per la Consulta era fondamentale verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non fosse realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva. In questo senso ha ritenuto che la norma sotto esame andasse letta assieme a quella contenuta nel capoverso immediatamente precedente, introdotto dall’articolo 52 della legge n. 69/09, secondo cui il giudice per le stesse cause non può liquidare spese, competenze e onorari superiori al valore della prestazione dedotta in giudizio. La stretta correlazione fra le due disposizioni - ha evidenziato la Corte costituzionale - «è esplicita» e va ricercata «nella esigenza di evitare l’utilizzo abusivo del processo che, in materia previdenziale, veniva spesso instaurato per soddisfare pretese di valore economico irrisorio, al solo fine di conseguire le spese di lite».

Entrambe le disposizioni mirano dunque a deflazionare il cosiddetto “contenzioso bagatellare”, ma quella che prevede di non liquidare le spese in misura superiore al valore della prestazione dedotta in giudizio, e che opera normalmente alla fine del procedimento, è di per sé già idonea a perseguire pienamente lo scopo. Grazie ad essa, in definitiva, il giudice non ha bisogno della quantificazione contenuta nell’atto introduttivo e quindi di una sanzione di inammissibilità la quale, pur non precludendo la riproposizione dell’azione giudiziaria, si traduce comunque in un aggravio per la parte. Da ciò la manifesta irragionevolezza della norma che la prevede.

La sentenza n. 241/17 della Corte costituzionale

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