Previdenza

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Centro unico di imputazione del rapporto di lavoro e responsabilità solidale
Sopravvenuta infermità permanente del lavoratore e licenziamento
Unitarietà del danno non patrimoniale
Il danno da straining sul luogo di lavoro
Obbligo di fedeltà del lavoratore


Centro unico di imputazione del rapporto di lavoro e responsabilità solidale

Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2018, n. 7704

Pres. Manna; Rel. Marotta; Ric. C.L.; Contr. G.S. s.c.a.r.l.;

Gruppo di imprese - Unico centro di imputazione del rapporto di lavoro - Illegittimità del licenziamento - Conseguenze - Risarcimento del danno - Responsabilità solidale - Sussistenza

Si configura unicità del rapporto di lavoro quando uno stesso lavoratore presti contemporaneamente la sua attività in favore di due datori di lavoro in modo che non possa distinguersi quale parte sia svolta in favore di uno e quale in favore dell'altro, con la conseguenza che entrambi i fruitori di tale prestazione devono, ai sensi dell'art. 1294 c.c., essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, il Tribunale di Tivoli dichiarava la illegittimità del recesso intimato ad un lavoratore e, ritenuta sussistente la prova della esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto, accordava al dipendente la tutela reale condannando le due società convenute al risarcimento del danno. 

La Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda di risarcimento del danno nei confronti della seconda società, tenuto conto che il lavoratore aveva chiesto la reintegrazione solo nei confronti del datore di lavoro "formale", quindi, l'altra società non poteva essere condannata al risarcimento. 

Avverso tale pronuncia, il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 18, l. n. 300/70 e degli artt. 1292 e ss. c.c. nella parte in cui la Corte di appello, pur avendo accertato l'esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, non aveva ritenuto entrambe le società condebitrici solidali con riferimento al risarcimento del danno.

La Cassazione, accoglie il ricorso, rilevando che, per costante giurisprudenza, si configura unicità del rapporto di lavoro quando uno stesso lavoratore presti contemporaneamente la sua attività in favore di due datori di lavoro in modo che non possa distinguersi quale parte sia svolta in favore di uno e quale in favore dell'altro, con la conseguenza che entrambi i fruitori di tale prestazione devono essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto ai sensi dell'art. 1294 c.c., norma che introduce una presunzione di solidarietà nel caso di obbligazioni con pluralità di debitori, ove dalla legge o dal titolo non risulti diversamente (cfr. Cass. 2 luglio 2015, n. 13646; Cass. 5 marzo 2003, n. 3249). 

Applicando tali princìpi al caso in esame, la Cassazione ritiene che abbia errato la Corte territoriale la quale, pur accertando l'esistenza di un unico centro di imputazione tra le due società e disponendo la reintegrazione nei confronti di una delle due - quella che formalmente aveva assunto il dipendente - abbia però limitato la condanna al risarcimento del danno solo nei confronti di quest'ultima. È pur vero, precisa la Cassazione, che l'art. 18, prevede la condanna al risarcimento del danno in stretta connessione con quella alla reintegra, ma ciò non esclude che il lavoratore possa restringere la sua domanda, chiedendo la reintegra nei confronti di un datore di lavoro e il risarcimento a carico di entrambi, tenuto conto che la solidarietà passiva consente al creditore di rivolgersi contro tutti i debitori in solido o soltanto nei confronti di uno di essi. 

 

Sopravvenuta infermità permanente del lavoratore e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 5 aprile 2018, n. 8419

Pres. Napoletano; Rel. Arienzo; Ric. L.F.; Contoric. B.S. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Infermità permanente sopravvenuta - Obbligo di adibizione a mansioni diverse - Requisiti e limiti 

In caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, non si realizza un'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 e artt. 1463 e 1464 c.c.) qualora il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti o, se impossibile, anche a mansioni inferiori, purché da un lato tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore, e dall'altro, l'adeguamento sia sorretto dal consenso, nonché dall'interesse dello stesso lavoratore 

Nota

Nel caso in esame la Corte d’Appello di Napoli dichiarava legittimo il licenziamento intimato al lavoratore, in conseguenza della sua sopravvenuta infermità permanente e l’incompatibilità della stessa con le mansioni di pompista allo stesso assegnate, con ciò ribaltando la decisione del giudice di prime cure di annullamento del licenziamento e conseguente reintegra nel posto di lavoro.

Nel merito la Corte rilevava che non esisteva nel CCNL applicato né nell’organizzazione aziendale un profilo di “pompista self” (di pompista, dunque, addetto esclusivamente alla pompa self service che, secondo il lavoratore, lo avrebbe esposto a meno rischi) rilevando altresì che in corso di causa era stato escluso che l’adibizione del ricorrente alla sola pompa self fosse meno nociva per lo stesso. In aggiunta la Corte aveva osservato che tale ultima soluzione avrebbe, in ogni caso, comportato l’adibizione continuativa degli altri dipendenti alle pompe con servizio, con aumento della loro esposizione al rischio.

Contro la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso in Cassazione il lavoratore sostenendo, in sintesi, che la Corte avesse ingiustificatamente escluso la possibilità che il ricorrente fosse sostituito nei compiti più usuranti da altro lavoratore con un migliore stato di salute, senza necessità di creare una posizione ad hoc per il lavoratore inabile.

La Suprema Corte ha dichiarato infondata la censura di cui sopra e respinto l’intero ricorso. 

Nella sua decisione la Corte di Cassazione, infatti, ha affermato - confermando un suo precedente orientamento - che «in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, non si realizza un'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 e artt. 1463 e 1464 c.c.) qualora il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti o, se impossibile, anche a mansioni inferiori, purché da un lato tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore, e dall'altro, l'adeguamento sia sorretto dal consenso, nonché dall'interesse dello stesso lavoratore». In sintesi, secondo la Suprema Corte, la sopravvenuta infermità permanente non legittima il recesso datoriale qualora il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti o, in subordine, inferiori e ciò non determini la necessità di modificare l’assetto organizzativo scelto dall’imprenditore. L’insussistenza di posizioni cui il lavoratore inabile potesse essere utilmente adibito - ha aggiunto la Corte - deve essere allegata e provata dal datore di lavoro. 

Secondo la Cassazione, nel caso in esame, la Corte d’Appello di Napoli ha agito coerentemente con i principi di cui sopra operando un corretto bilanciamento tra l’interesse del lavoratore inabile ad essere assegnato a mansioni alternative (equivalenti o anche inferiori) e quello del datore di lavoro ad una collocazione del lavoratore inidoneo che non incida nel senso di modificare le scelte organizzative con pregiudizio per gli altri lavoratori. Allo stesso tempo, è stato assolto - sempre secondo la Suprema Corte - l’onere di allegazione e prova in capo al datore in quanto la società datrice ha dato il dovuto risalto, da un lato, al fatto che non esistesse una mansione autonoma di pompista self (essendo tutti i pompisti addetti, all’occorrenza, alla pompa self), dall’altro che non vi erano state - neppure tra le altre posizioni presenti in azienda - carenze di organico o nuove assunzioni stabili successive al licenziamento.

Conseguentemente, ha concluso la Cassazione, il lavoratore non poteva essere adibito esclusivamente alla pompa self poiché tale adibizione, non integrando un profilo professionale autonomo, avrebbe rappresentato un adempimento soltanto parziale della prestazione lavorativa, mentre lo spostamento di altri dipendenti e la modifica delle loro mansioni finalizzata all’adibizione del lavoratore alla sola pompa self, oltre ad esporre gli altri lavoratori a maggiori rischi, avrebbe obbligato il datore a modificare l’organigramma aziendale, la cui configurazione è rimessa alla libertà imprenditoriale.

 

Unitarietà del danno non patrimoniale 

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2018, n. 7840

Pres. Napoletano; Rel. De Felice; Ric. B.M. e L.M.; Controric. A.U.S.L.L.;

Risarcimento del danno - Patrimoniale e non patrimoniale - Danno alla persona - Carattere unitario - Liquidazione - Applicazione delle "tabelle di Milano" - Deduzione, quale motivo di impugnazione, della mancata liquidazione del "danno morale" - Contenuto della doglianza - Requisiti

Il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile "esistenziale", e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono componenti dell'unitario danno non patrimoniale che, senza poter essere valutate atomisticamente, debbono pur sempre dar luogo ad una valutazione globale. Ne consegue che, in caso di mancata liquidazione del cosiddetto danno morale, occorre che il ricorrente, in sede di impugnazione della sentenza, non si limiti ad insistere sulla separata liquidazione di tale voce di danno, ma che articoli chiaramente la doglianza come erronea esclusione, dal totale ricavato in applicazione delle cosiddette "tabelle di Milano", delle componenti di danno diverse da quella originariamente descritta come "danno biologico", risultando, in difetto, inammissibile la censura atteso il carattere tendenzialmente onnicomprensivo delle previsioni delle predette tabelle.

Nota

Nella sentenza in commento, il Supremo Collegio ribadisce - anche con riferimento ai pregiudizi sofferti da un dipendente nell'esecuzione della prestazione lavorativa - il principio di unitarietà del danno non patrimoniale risarcibile.

Nel caso di specie, due lavoratori lamentavano la violazione da parte del datore dell'obbligo di protezione ex art. 2087 cod. civ. per effetto della utilizzazione della loro prestazione lavorativa in turni di disponibilità «ben oltre il limite contrattuale», domandando il risarcimento dei danni conseguentemente patiti.

Il Tribunale rigettava il ricorso; la Corte d'appello, invece, l'accoglieva parzialmente. In dettaglio, la Corte territoriale, da un lato, accertava che i due dipendenti «sono stati sottoposti per un periodo sicuramente non breve a turni di servizio obiettivamente gravosi e spesso continuativi»; dall'altro, richiamandosi alla relazione medico-peritale, riconosceva l'insorgenza di un'«importante sintomatologia patologica di tipo ansioso depressivo (...) quale conseguenza della grave discrasia organizzativa subita». Conseguentemente, i giudici del merito provvedevano alla liquidazione unitaria del danno, attribuendo ai lavoratori un'invalidità complessiva dell'8% per postumi permanenti, a titolo di danno biologico.

I lavoratori proponevano ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, il mancato riconoscimento, «nell'ambito del danno biologico» anche di «un danno morale ed esistenziale», causato «dall'alterazione dei modi e dei ritmi quotidiani di vita per l'avvicendarsi di turnazioni eccedenti l'orario di servizio».

La Suprema Corte rigetta l'impugnazione, rammentando, anzitutto, che il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria, dovendosi escludere che i vari nomina iuris  che lo contraddistinguono possano essere invocati singolarmente con l'intento di aumentarne il quantum. Precisamente - soggiunge la Cassazione - il danno biologico, inteso come lesione alla salute, quello morale, cioè la sofferenza interiore, e quello dinamico-relazionale, definibile come esistenziale, costituiscono le componenti dell'unitario danno non patrimoniale e danno luogo ad una valutazione globale e non atomistica per singoli tipi. Conseguentemente - concludono i Giudici di legittimità - in caso di mancata liquidazione del cosiddetto danno morale, occorre che il ricorrente, in sede di impugnazione della sentenza, non si limiti ad insistere sulla separata liquidazione di tale voce di danno, ma che articoli chiaramente la doglianza come erronea esclusione, dall'ammontare complessivamente ricavato in applicazione delle cosiddette "tabelle di Milano", delle componenti di danno diverse da quella originariamente descritta come "danno biologico". Oneri - a giudizio della Cassazione - per nulla assolti dal ricorrente, con conseguente inammissibilità della censura, atteso il carattere tendenzialmente onnicomprensivo delle previsioni delle predette tabelle.

 

Il danno da straining sul luogo di lavoro 

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2018, n. 7844

Pres. Manna; Rel. Piccone; Ric. B.P. Soc. Coop.; Controric. M.L.;

Lavoro subordinato - Tutela delle condizioni di lavoro - Art. 2087 c.c. - Mobbing - Straining - Prova presuntiva del danno da straining - Diritto al risarcimento - Sussistenza

Ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., il datore di lavoro è tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che possano dare origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale, professionale, o altre circostanze del caso concreto, possa presuntivamente ricondurre ad una forma di danno da straining, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.

Nota

Un dipendente di banca ha agito in giudizio chiedendo la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno da demansionamento e mobbing, sostenendo di avere subito azioni ostili, consistite nell’allontanamento dalla direzione generale della banca e dalla diffusione, nell’ambito della sua agenzia, di lettere di scherno, senza che si fosse verificato alcun intervento dell’azienda volto a tutelarlo.

La Corte d’Appello di Firenze, in parziale conferma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto che si fosse verificato un evento lesivo per la salute del dipendente e, conseguentemente, aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. 

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la Società che deduceva l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la sussistenza dei danni patrimoniali e non patrimoniali e la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2087, 2697 e 1226 cod. civ.

La sentenza impugnata veniva inoltre censurata nella parte in cui aveva ritenuto la sussistenza, in caso di demansionamento e di mobbing, di un danno in re ipsa, ed aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno pur in assenza di specifica allegazione e prova del danno subito.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso.

Ad avviso della Corte i giudici di merito avevano adeguatamente motivato circa la situazione lavorativa conflittuale e di stress forzato, poiché il lavoratore, che era stato allontanato dalla direzione generale dell’agenzia, aveva anche ricevuto lettere di scherno che erano state diffuse all’interno della banca tra gli altri dipendenti.

Secondo la Corte di Cassazione il dipendente avrebbe pertanto subito azioni ostili che, seppur limitate nel numero e, in parte, distanziate nel tempo, erano state «tali da provocare in lui una modificazione, in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato». Il datore di lavoro avrebbe dovuto adoperarsi per tutelare il lavoratore ed evitare così situazioni “stressogene” tali da comportare un danno da straining sussistente anche in caso di assenza di prova di un preciso intento persecutorio.

La Corte ricorda, inoltre, che la situazione di stress forzato può derivare anche dalla mera costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile e da incuria e disinteresse del datore di lavoro rispetto alla tutela del benessere lavorativo del dipendente (Cass. n. 3291/2016).

Circa il danno non patrimoniale, la Suprema Corte ha ricordato che all’accertamento del pregiudizio sofferto dal lavoratore alla professionalità e per perdita di chances si può procedere sulla base di presunzioni e secondo un calcolo delle probabilità.

Nel caso in esame, infatti, il dipendente aveva subito un impoverimento del proprio bagaglio personale poiché, da un lato, era stato estromesso da un settore strategico dell’azienda nel quale stava progressivamente incrementando le proprie conoscenze tecniche e gestionali, dall’altro, in quanto, presumibilmente, nessuno avrebbe conferito un incarico di natura dirigenziale ad un dirigente appena rimosso. 

 

Obbligo di fedeltà del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 26 marzo 2018, n. 7425

Pres. Manna; Rel. Leone; P.M. Mastroberardino; Ric. C.A.; Controric. A. S.p.A.;

Obbligo di fedeltà - Integrazione con i principi di correttezza e buona fede - Necessità - Contenuto - Fattispecie

L’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., integrato dai generali doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. nello svolgimento del rapporto contrattuale, deve intendersi non soltanto come mero divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi, ma anche come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi con l’inserimento del dipendente nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (La Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente di impresa di trasporti che ha guidato due giorni, di cui uno di congedo parentale, in favore di altro vettore, a cui lo stesso datore di lavoro aveva affidato in appalto il servizio).

Nota

La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte attiene ad un dipendente di impresa di trasporti destituito dal servizio per aver guidato in favore di altro vettore (a cui lo stesso datore di lavoro aveva affidato in appalto il servizio) e in concomitanza della fruizione di congedo parentale. 

La Corte d’Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto violato l’obbligo di fedeltà nei confronti del datore di lavoro. 

Avverso la predetta sentenza il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, in particolare, da un lato, la mancata ammissione della prova testimoniale, da parte della Corte di merito, su alcuni capitoli di prova riguardanti circostanze, quali l’assenza di legami giuridici tra il ricorrente e la società appaltatrice del servizio di trasporto, nonché la natura gratuita e a titolo di cortesia della prestazione di guida effettuata nei giorni contestati, e, dall’altro, la violazione di norme di diritto (art. 2106 c.c., in combinato disposto con gli artt. 2105, 1175, 1375 c.c.).

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, affermando, quanto al primo motivo, che la Corte territoriale ha esercitato il potere-dovere di ammettere solo i capitoli di prova ritenuti rilevanti ex art. 183 c.p.c. ed ha altresì fornito adeguata motivazione sulla scelta operata, dettata dalla non inferenza delle circostanze dedotte, rispetto alla scelta espulsiva del datore di lavoro. Con riferimento, poi, al secondo motivo, la Suprema Corte ha ribadito che: a) l’obbligo di fedeltà a carico del prestatore di lavoro, sancito dall’art. 2105 c.c. - da ritenersi integrato con i generali doveri di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro - determina per il lavoratore l'obbligo di astenersi da qualsiasi condotta che contrasti con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell'impresa, o che crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima, o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cass. 04/04/2017, n. 8711; Cass. 08/07/2015, n. 14249); b) l’obbligo di fedeltà non è scollegato, nel suo contenuto, dalla concreta attività lavorativa svolta, dalla sua potenziale conflittualità con quella oggetto della prestazione principale e dalle caratteristiche assunte dall’oggettivo comportamento del lavoratore (Cass. 25/03/2011 n. 7021).

Ebbene - ha concluso la Corte di legittimità - correttamente la Corte d’Appello ha ritenuto che la attività di guida, già costituente il contenuto pieno della prestazione alle dipendenze del datore di lavoro, se svolta in favore di altro vettore, peraltro legato al datore da un rapporto di appalto, per di più durante una giornata di congedo parentale (quest’ultima finalizzata, per volontà legislativa, allo svolgimento di attività familiari a rilievo costituzionale), integri certamente un comportamento contrario ai principi di buona fede e correttezza.

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