Previdenza

Il Tfr in busta paga e le conseguenze del ritorno al passato

di Antonino Cannioto e Giuseppe Maccarone


Si avvia molto mestamente a conclusione il periodo di sperimentazione del Tfr in busta paga.
E' “giugno 2018”, infatti, l'ultimo periodo di paga in cui la generalità dei lavoratori dipendenti del settore privato (con alcune eccezioni) - con un rapporto in essere da almeno sei mesi - può richiedere al datore di lavoro la liquidazione della quota maturanda di TFR, sotto forma di integrazione mensile della retribuzione (Qu.I.R.).
È stato l'articolo 1, commi da 26 a 34, della legge di stabilità 2015 (L. 190/14) a introdurre questa facoltà che, che snaturando il TFR, ha commutato la quota mensilmente maturata dai lavoratori in parte dello stipendio.
Una delle misure più pubblicizzate dall'esecutivo del tempo, in quanto – almeno nelle intenzioni governative – avrebbe reso più pesante la busta dei lavoratori e, contemporaneamente, dato slancio all'economia.
In realtà, e sinceramente non ci voleva troppo a immaginarlo, le cose sono andate diversamente e il progetto si è rivelato uno dei più evidenti flop dei governo Renzi.
Il regime di tassazione (ordinaria, con riduzione delle detrazioni Irpef per lavoro dipendente e per carichi familiari, e con l'ulteriore aggravio delle addizionali regionali e comunali), la perdita delle prerogative che caratterizzano l'istituto del TFR e il negativo impatto sulla costruzione del cosiddetto secondo pilastro pensionistico, hanno indotto i lavoratori a scelte più oculate.
Ne è riprova il fatto che solamente uno sparuto numero di lavoratori ha optato per questa soluzione.
Ricordiamo che, nel periodo di operatività della monetizzazione (al massimo 38 mesi per chi ha deciso sin da subito di cogliere questa possibilità), sono rimasti sospesi sia i versamenti al Fondo di Tesoreria (per i destinatari) che il finanziamento, tramite TFR, della previdenza complementare. Con riferimento a quest'ultima, l'adesione del lavoratore dipendente è proseguita, senza soluzione di continuità, sulla base della posizione individuale maturata prima della monetizzazione nonché dell'eventuale contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro.
Una volta esaurito l'arco temporale di funzionamento della Qu.I.R – e, quindi, in genere, a far tempo dal periodo di paga “luglio 2018” - i datori di lavoro ritorneranno a operare in linea con le scelte effettuate, ex D.Lgs. 252/05, dagli interessati prima della cosiddetta monetizzazione.
Conseguentemente, nelle aziende di minori dimensioni (meno di 50 addetti), e con riferimento ai lavoratori che hanno optato per mantenere il TFR al regime civilistico ex art. 2120 del c.c., le quote mensilmente maturate potranno nuovamente restare in azienda. Nelle imprese più grandi, invece, dovranno essere ripresi i versamenti al Fondo di Tesoreria Inps.
Parallelamente, in caso di precedente opzione (esplicita o tacita) del lavoratore verso la previdenza complementare, le aziende saranno tenute a riproporre i trasferimenti delle quote di TFR al fondo di destinazione, secondo la tempistica dettata dai singoli statuti.
Il “ritorno al passato” comporterà, inoltre, per i lavoratori che non lo avessero ancora fatto, di optare per l'adesione alla previdenza complementare.
Anche i datori di lavoro minori (meno di 50 addetti) dovranno prestare attenzione. Il rientro in azienda del TFR farà, infatti, perdere loro la titolarità delle misure compensative di cui hanno fruito durante il periodo di operatività della Qu.I.R.
Dopo l'entrata in vigore della riforma della previdenza complementare nonché del Fondo di Tesoreria gestito dall'Inps, buona parte dei datori di lavoro si è dovuto spossessare del TFR. Infatti, in generale, i dipendenti hanno la facoltà di destinarlo alla costruzione di una seconda pensione oppure di lasciarlo in azienda. In tale ultimo caso, le imprese con almeno 50 dipendenti devono obbligatoriamente versarlo alla Tesoreria dello Stato gestita dall'Inps. In entrambe le ipotesi (trasferimento a forme pensionistiche complementari o al Fondo di Tesoreria), i datori di lavoro perdono uno strumento che, storicamente, ha costituito una sorta di autofinanziamento. Per farvi fronte, il legislatore ha previsto per le aziende l'operatività di misure compensative di tipo fiscale e contributivo.
Queste ultime si concretizzano in una riduzione, calcolata sull'imponibile previdenziale, pari allo 0,28% a cui si aggiunge un esonero dello 0,20% sul contributo dovuto al Fondo di garanzia ex art. 2 L. 297/82 (0,40% per i dirigenti industriali). In occasione dell'entrata in vigore della normativa sulla Qu.I.R., visto che anche i datori di lavoro minori avrebbero potuto spossessarsi del TFR, venne loro estesa la possibilità di avvalersi delle misure compensative. L'applicazione della facilitazione, tuttavia, varia in relazione alla modalità di erogazione della Qu.I.R.. La corresponsione con risorse proprie, ha consentito l'accesso sia alle misure compensative fiscali che a quelle contributive; queste ultime, nella forma della doppia riduzione (0,20% e 0,28%); ai datori di lavoro che, per monetizzare il TFR, hanno chiesto il prestito bancario (a cui potevano ricorrere le aziende più piccole, non destinatarie della Tesoreria, in caso di carenza di liquidità), è stata, invece, preclusa sia la misura fiscale che la riduzione dello 0,28%; le stesse, inoltre, sono state chiamate a versare uno specifico contributo (0,20%- codice M500) per finanziare un nuovo fondo destinato a fornire una garanzia in caso di mancata restituzione del finanziamento ottenuto. Dal 1/7, dunque, in concomitanza con la fine del regime transitorio del TFR in busta paga, le aziende in cui sono occupati lavoratori che vi hanno fatto ricorso, dovranno ricordare di rettificare i contributi dovuti all'Inps

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