Previdenza

Pensione di reversibilità alla moglie separata anche se non ha l’assegno di mantenimento

di Giorgio Vaccaro


La pensione di reversibilità del marito spetta anche alla moglie separata alla quale non era stato riconosciuto l’assegno di mantenimento. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza 7464 depositata il 15 marzo 2019.

Il ricorso. La Cassazione si è pronunciati sul ricorso di una vedova che, dal Tribunale e dalla Corte d’appello, si era vista negare la pensione di reversibilità del marito perché coniuge separato senza diritto agli alimenti. Secondo i giudici di merito, infatti, dato che la donna non fruiva degli alimenti non poteva rivendicare dopo la morte del marito «l’attivazione di un trattamento previdenziale a suo vantaggio».

La ricorrente ha contestato questa decisione, sostenendo che la pensione di reversibilità va riconosciuta anche al coniuge separato per colpa o con addebito, che va «equiparato sotto ogni profilo al coniuge (separato o non) e in favore del quale opera la presunzione legale di vivenza a carico del lavoratore al momento della morte».

La decisione. La Cassazione accoglie la tesi sostenuta dalla ricorrente. Secondo i giudici, infatti, dopo la sentenza 286/87 della Corte costituzionale, non è più giustificabile «il diniego, al coniuge cui fosse stata addebitata la separazione, di una tutela che assicuri la continuità dei mezzi di sostentamento che il defunto coniuge sarebbe stato tenuto a fornirgli». Di più. Il Collegio osserva che il dispositivo della decisione dichiarativa della illegittimità costituzionale delle norme esaminate (articolo 24, legge 153/69 e articolo 23, comma 4, legge 1357/62, nella parte in cui escludono dall’erogazione della pensione di reversibilità il coniuge separato per colpa con sentenza passata in giudicato) «non indica condizioni ulteriori rispetto a quelle valevoli per il coniuge non separato per colpa, ai fini della fruizione della pensione».

Dunque, per l’attribuzione della pensione di reversibilità al coniuge separato non si applicano le condizioni richieste agli altri possibili beneficiari (come ad esempio i figli con più di 18 anni o i fratelli e le sorelle del defunto), vale a dire il vivere a carico del defunto al momento del decesso e lo stato di bisogno, ma solo «l’esistenza del rapporto coniugale con il coniuge defunto, pensionato o assicurato». In definitiva, affermano i giudici della Cassazione, la ratio della legge è quella di «porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, senza che tale stato di bisogno divenga concreto presupposto e condizione della tutela medesima».

I giudici hanno quindi cassato la decisione della Corte d’appello. Non solo. La Cassazione ha osservato che «non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, può procedersi alla decisione nel merito, con l’accoglimento della domanda proposta dall’istante nei confronti dell’Inps».

Le spese infine, seguono la soccombenza e vengono liquidate a carico delle casse dell’Inps in un importo complessivo per i tre gradi di giudizio superiore agli 11mila euro.

Cassazione nell'ordinanza 7464 del 15 marzo 2019

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