Previdenza

È ora di pensare a pensioni di garanzia per i giovani

di Vincenzo Galasso

La Ragioneria dello Stato stima che le misure del governo Lega-M5S aumenteranno la spesa pensionistica di circa lo 0,2% del Pil nel 2018-2040. E ciò malgrado si tratti solo di misure sperimentali: fino al 2021 per Quota 100 e fino al 2026 per lo stop all'adeguamento alla speranza di vita dell'età di pensionamento. Tante risorse per un ristretto gruppo di sessantenni. Ne vale la pena?

Per dare una risposta, proviamo ad usare due parametri: efficacia e equità delle misure e uso alternativo delle risorse.

L’obiettivo di queste misure è di consentire ai lavoratori anziani di andare in pensione prima. Negli ultimi vent’anni, la speranza di vita è largamente cresciuta in Italia, così come l’età di pensionamento, che è aumentata di quattro anni e mezzo. Nel 2001, si andava in pensione in media a 57 anni e 3 mesi con la pensione anticipata e a quasi 62 anni con quella di vecchiaia. Oggi, l’età media è rispettivamente 61 anni e 6 mesi e 66 anni e 6 mesi. Nel confronto internazionale, questi numeri ci collocano tra i Paesi dove si vive più a lungo, ma non certo tra quelli in cui si va in pensione più tardi.

Tuttavia, chiedere più flessibilità in uscita è legittimo. Ma siamo sicuri che Quota 100 garantisca flessibilità a chi ne ha veramente bisogno? Quota 100 aiuta soprattutto i lavoratori con carriere lavorative continue, ovvero gli uomini che avrebbero conseguito la pensione anticipata mediamente nel giro di due anni. E anche il blocco dell’adeguamento dell’età di pensionamento alla speranza di vita riguarda solo le pensioni anticipate.

Eppure i lavoratori maggiormente in difficoltà sono quelli con carriere discontinue, spesso donne o lavoratori meno istruiti, che devono attendere i 67 anni per una pensione di vecchiaia molto meno generosa. Le misure previdenziali dello scorso anno premiano dunque chi ne ha meno bisogno. La domanda di maggior flessibilità nell’uscita dal mondo del lavoro, posta sia dai lavoratori che dalle imprese – e non sono in Italia – è legittima, ma richiede una diversa gestione.

Che cosa si potrebbe fare con i sette miliardi all’anno assegnati a Quota 100 per il prossimo biennio? Dipende ovviamente dalla priorità, ecco qualche possibile alternativa. Si potrebbe ridurre il debito pubblico, facendo scendere il rapporto debito Pil di quasi l’1%. O si potrebbero usare per provare a scongiurare l’aumento dell’Iva previsto dalla clausola di salvaguardia. Ipotesi forse poco seducenti, ma utili.

Più suggestiva è l’idea di dirottare le risorse verso le giovanissime generazioni. Sette miliardi all’anno è la cifra che l’Italia destina in totale ad asili nido (1,2 miliardi) e scuole materne. Una spesa di molto inferiore a quella degli altri Paesi Europei e che ci tiene ben lontani dall’obiettivo minimo suggerito dall’Unione europea: un terzo dei bambini sotto i 3 anni al nido. In Italia, siamo solo al 10%, con grandi differenze geografiche.

Un maggior utilizzo degli asili nido aiuterebbe ad aumentare l’occupazione femminile, che ci vede agli ultimissimi posti in Europa. A differenza di Quota 100, che – contrariamente ai proclami dei promotori, ma come largamente previsto – non ha avuto gli effetti desiderati sull’occupazione giovanile.

Ma si può pensare ai giovani anche lasciando le risorse sul capitolo pensioni. Come fatto dalla Svizzera con i fondi di compensazione Avs nel 1946, si potrebbe istituire un fondo pensione a capitalizzazione da usare come cuscinetto per finanziare le prestazioni future o una pensione di garanzia per i giovani.

Certo, è possibile che le risorse vadano indirizzate proprio ai sessantenni. I bambini non votano e crescono in fretta. E così i loro genitori si trovano rapidamente ad avere priorità diverse dall’asilo nido. Ma, anche se i vincoli politici impongono una destinazione ad generationem delle risorse, si può fare meglio di Quota 100. Basterebbe indirizzare i fondi verso la long term care, l’assistenza ai non-autosufficienti – nei tre quarti dei casi ultrasessantacinquenni, in cui l’Italia spende meno della metà della media dei paesi Ocse.

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