Previdenza

Ammortizzatori, l’obiettivo è coprire tutti

Via a nuovi Fondi: allargata la platea delle prestazioni con la finalità di garantire una protezione anche ai dipendenti delle piccole aziende

di Alessandro Rota Porta e Serena Uccello

L’orizzonte di arrivo è garantire a tutti i lavoratori la copertura di un ammortizzatore sociale, la realizzazione cioè di un modello universale di sostegno nel caso di crisi aziendali momentanee o, più drammaticamente, della perdita del posto di lavoro. Si muove con questo spirito il percorso di revisione dell’attuale quadro normativo (il Dlgs 148 del 2015) fissato nel Titolo V del disegno di legge di Bilancio 2022. Un capitolo corposo, quello definito come «Riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali», che si snoda per 24 articoli ma che ha il suo cuore in una scelta per ben precisa: allargare le prestazioni.

Per farlo, l’Esecutivo sceglie di rafforzare il ruolo dei Fondi bilaterali a cui spetterà ora il compito di “tutelare” i lavoratori delle aziende più piccole. Vediamo in che modo.

Due i punti fermi: il restyling degli ammortizzatori sociali punta, come si diceva, all’universalità, indipendentemente dal settore economico e dalla classe dimensionale del datore di lavoro. Indirettamente, l’altro principio che sottende a questa revisione, prevede che non si debba più fare ricorso a strumenti in deroga, come avvenuto finora (e recentemente per il Covid), per far fronte alle situazioni emergenziali in favore della platea di soggetti esclusi dalle integrazioni salariali.

Le modifiche

Più nel dettaglio, tra i vari interventi e fatte salve eventuali modifiche che interverranno nell’iter parlamentare della legge, un ruolo fondamentale lo potranno giocare i fondi di solidarietà bilaterali e quelli bilaterali alternativi, ai quali il legislatore rinnova la spinta già impressa nel 2015: infatti, nei comparti ove sono già esistenti, dovranno adeguarsi alle nuove regole entro il 2022, mentre potranno sempre essere creati in quelli scoperti. Laddove queste due condizioni non si verificassero, tutti i datori di lavoro non coperti dalla Cigo, con almeno un dipendente, saranno tenuti a versare la contribuzione al fondo di integrazione salariale Inps (Fis). L’aliquota di finanziamento sarà pari allo 0,50% ovvero allo 0,80%, a seconda che il datore abbia occupato mediamente – nel semestre precedente – fino a cinque dipendenti oppure più di cinque.

Il passaggio al nuovo modello

Poiché l’adeguamento dei fondi bilaterali oggi esistenti non sarà immediato, resta da capire come sarà gestito il versamento della contribuzione: è plausibile che si possa realizzare una dinamica simile a quanto avvenuto recentemente nel caso del fondo di solidarietà bilaterale degli studi professionali. Quindi, nelle more dell’adattamento delle regole di fondi esistenti o dell’istituzione di eventuali nuovi fondi, i datori finora rimasti fuori verseranno al Fis; non appena i fondi si saranno conformati alle nuove regole, i contributi (anche quelli pregressi) dovranno essere versati ai fondi settoriali di appartenenza, recuperando dal Fis quanto versato nel frattempo.

La durata

Cambia anche la durata del trattamento di integrazione salariale, che potrà arrivare rispettivamente a 13 o 26 settimane, a seconda della dimensione del datore come sopra descritta: peraltro, scompare l’assegno di solidarietà e lo strumento unico sarà l’assegno di integrazione salariale, in relazione a tutte le causali di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa.

I numeri

Attualmente sono 16 i fondi di solidarietà bilaterale costituiti presso l’Inps e coinvolgono 5,5 milioni di lavoratori. Nel 2020 hanno erogato prestazioni per una spesa di 1,9 miliardi. Di questi, quasi un miliardo è servito a finanziare l’assegno straordinario per accompagnare all’uscita i lavoratori distanti fino a cinque anni dai requisiti per la pensione. Una spesa nel complesso ancora minoritaria rispetto al totale delle risorse usate dall’amministrazione pubblica per finanziare gli ammortizzatori sociali nell’anno dell’emergenza sanitaria (18,7 miliardi in tutto, tra spesa a carico dell’Inps e quella a carico della fiscalità generale), ma ora destinata a crescere.

Le criticità

Il tema delle risorse e soprattutto il risvolto in termini di costi per lavoratori e aziende è quello su cui più puntano il dito le parti sociali. Se infatti convince l’idea di un sistema universale, pur con sfumature diverse (sarebbe auspicato un sistema meno articolato e complesso), è altresì generale il timore di un aggravio di costi che al momento rischia di avere un impatto sul mondo produttivo. E questo riguarderà sia le aziende appartenenti a settori che si doteranno di un fondo, sia quelle che si iscriveranno al Fis (Fondo di integrazione salariale). Ecco perché è sollecitata una fase di assestamento, ad esempio permettendo alle aziende che devono entrare nel sistema dei fondi di usare i residui di cassa Covid oppure di prevedere altre forme di sostegno per reggere il costo delle aliquote. Questo perché, sul fronte sindacale, in molti temono che, con l’attuale trend della pandemia, a gennaio le imprese rischino di essere esposte su un doppio fronte: l’economia globale ancora in difficoltà e i nuovi oneri determinati dall’ingresso nel fondi.

La transizione occupazionale

Nel disegno di riforma spicca anche l’introduzione dell’accordo di transizione occupazionale, accompagnato da politiche attive e di riqualificazione, attraverso il programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori). Una misura che il legislatore ha pensato per i datori con più di 15 dipendenti in specifiche ipotesi di utilizzo dell’integrazione salariale straordinaria: qualora ci si trovi in presenza di processi di salvaguardia della forza lavoro, sarà così possibile usufruire di periodi più lunghi della Cigs rispetto a quelli canonici.

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