Previdenza

L’Inps ora chiede i contributi di 30 anni fa

Alle Pa comunicazioni di debito su versamenti pretesi in base a banche dati zoppicanti

di Tiziano Grandelli e Mirco Zamberlan

Non bastassero il post-pandemia e il Pnrr, alle amministrazioni arrivano, improvvise, le comunicazioni di debito dell’Inps che pretende contributi arretrati anche di 30 anni fa. Il fenomeno è diffuso a macchia di leopardo, per ora con una concentrazione in Emilia-Romagna che non esclude però l’estensione ad altri territori.

La vicenda nasce con la riforma Dini del 1995 che ha introdotto il termine di prescrizione anche per la gestione previdenziale dei dipendenti pubblici. Dopo 5 anni, l’istituto di previdenza non poteva più vantare alcun credito. La norma non ha trovato vita facile, e di proroga in proroga si è arrivati al 31 dicembre 2022 con la «non applicabilità» del termine prescrizionale.

Le copiose richieste per omessi versamenti spesso nascono dal fatto che gli archivi Inps sono stati alimentati nel tempo con diverse modalità che partono dalla trascrizione manuale dei ruoli cartacei dei primi anni 90 per arrivare ai modelli 770 transitando per il progetto Sonar. Questo travagliato percorso ha alimentato i database Inps con informazioni di attendibilità dubbia. Sulla base di questi archivi l’Inps emette ora gli avvisi di debito ogni volta non riesca a incrociare gli importi versati con quelli dovuti. Non è un caso che i problemi si collochino negli anni precedenti alla messa a regime delle Uniemens.

Nelle comunicazioni di debito, a fronte di retribuzioni imponibili determinate dall’Inps, vengono ricalcolati i contributi suddivisi per anno e per dipendente, e, nel caso di squadratura con quelli versati, si pone a carico dell’amministrazione la differenza.

Contro gli avvisi, tre sono le alternative a disposizione. Una prima strada consiste nell’adeguarsi alle richieste e procedere con il versamento. Soluzione consigliabile nei casi in cui l’importo sia esiguo rispetto all'impegno necessario per un’eventuale difesa.

In caso contrario si può pensare di verificare la correttezza della pretesa rettificando gli archivi Inps. Questo però richiede molto tempo e, soprattutto, la disponibilità di informazioni risalenti, di difficile reperibilità. Il termine per un eventuale ricorso amministrativo è fissato in 30 giorni dal ricevimento dell’atto. L’impugnazione è poi complessa da sostenere vista la brevità del tempo a disposizione, anche se è possibile dopo interfacciarsi con l’Inps per una soluzione bonaria.

Se gli sforzi non dessero risultato, non resta che attendere l’iscrizione a ruolo e ricorrere davanti al giudice del lavoro. L’esito del ricorso non è scontato in quanto l’Inps può farsi forza della lettera della norma e il diritto alla difesa dell’ente è messo a dura prova dal tempo trascorso.

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