Previdenza

La Lega riapre il fronte pensioni: stop alla Fornero, subito Quota 41

di Marco Rogari

Dopo il fisco, i balneari e l’invio della armi all’Ucraina anche le pensioni sono destinate a mettere in pericolo i già precari equilibri all’interno della maggioranza. Riaprire il fronte previdenza è la Lega. Matteo Salvini ha prima incontrato i sindacati la scorsa settimana trovando una scontata sponda sulla flessibilità in uscita e poi ha reinserito «la cancellazione definitiva della legge Fornero» a partire dal prossimo anno per «arrivare a Quota 41» tra gli obiettivi prioritari indicati nei suoi comizi, come quello a Senago vicino a Milano. Un pressing che si intensifica proprio in una fase in cui il cosiddetto “cantiere-pensioni” segna il passo, ma che deve fare i conti con la rigida contrarietà di Bruxelles ad abbandonare la rotta tracciata dalla riforma approvata dal governo Monti.

Proprio ieri la Commissione europea nel Country Report sull’Italia incluso nel pacchetto di primavera (v. altri articoli alle pagine 2 e 3) ha sottolineato come nel nostro Paese «la spesa per le pensioni sia destinata ad aumentare» a causa degli sviluppi sfavorevoli della demografia. Una spesa che, si evidenzia nel report, risulta «tra le più alte nella Ue rispetto al Pil», anche a causa delle numerose deroghe alla alla legge Fornero introdotte nel 2015, e poi prorogate ogni anno, per favorire l’uscita anticipata delle donne e dei lavoratori vulnerabili. E, soprattutto, di Quota 100 e della stessa Quota 102 prevista dal governo Draghi con l’ultima legge di bilancio, seppure per il solo 2022.

Ma proprio l’avvicinarsi della scadenza della misura che consente il pensionamento con almeno 64 anni d’età e 38 di contributi rischia di alimentare nuove fibrillazioni nella maggioranza. Anche perché gli stessi sindacati insistono nella richiesta di rendere possibili uscite attorno ai 62 anni o, in alternativa, al raggiungimento dei 41 anni di versamenti, in linea, almeno in questo caso, con la richiesta di Quota 41 del Carroccio.

Un’opzione che non hai mai convinto il governo, che all’inizio dell’anno aveva avviato un confronto con Cgil, Cisl e Uil per individuare soluzioni per garantire una maggiore flessibilità in uscita al sistema previdenziale. Ma con due precisi paletti, che erano stati ribaditi più volte dallo stesso Mario Draghi: rimanere rigidamente nel solco del metodo di calcolo contributivo (con l’eventuale ricalcolo degli assegni) ed evitare un ulteriore appesantimento della spesa pensionistica.

Il governo aveva comunque dato la disponibilità a valutare con attenzione con alcune proposte arrivate dai sindacati, come quelle sulla copertura previdenziale dei giovani con carriere discontinue, sulle ulteriori agevolazioni pensionistiche da mettere a disposizione delle lavoratrici e su una nuova fase di “silenzio-assenso” per destinare il Tfr ai fondi pensione e rilanciare così la previdenza integrativa. Rimaneva da superare lo scoglio più arduo: quello della flessibilità in uscita. Che è auspicata anche da Pd, M5S e Leu. Ma con ricette diverse e in molti punti non affatto in sintonia con quelle della Lega e di tutto il centrodestra.

A metà febbraio però il tavolo è stato congelato dall’esecutivo, che è stato costretto a dare priorità nella sua agenda ad altri dossier, a cominciare da quelli sulla crisi energetica e sul conflitto russo-ucraino. Da quel momento i sindacati hanno a più riprese invocato la ripartenza del confronto, per il quale lo spazio disponibile continua a ridursi con l’avvicinarsi della scadenza di metà ottobre quando dovrà essere varata la manovra per il 2023.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©