Previdenza

Pensioni, con uscite a 64 anni e contributivo tagli dal 10 al 18 per cento

di Marco Rogari

Quota 102 è a metà del cammino: tra meno di sette mesi concluderà la sua breve corsa. E, almeno sulla carta, rimane a disposizione uno spazio di tempo assai ristretto per individuare prima del varo della manovra autunnale misure e correttivi che consentano di evitare un ritorno dal 2023 alla legge Fornero in versione integrale. Ma il confronto avviato dal governo a inizio dell’anno con le parti sociali per giungere a una sorta di mini-riforma, possibilmente condivisa, è fermo da metà febbraio. Con lo scoppio del conflitto russo-ucraino e l’acuirsi della crisi energetica è cambiato l’ordine di priorità nell’agenda di palazzo Chigi. Ma sulla previdenza il tempo stringe e le forze politiche e i sindacati sono in pressing per riaprire il tavolo a colpi di proposte, non ultima quella di Quota 41 cara alla Lega.

Il paletto fissato con chiarezza da Mario Draghi già alla fine dello scorso anno per vincolare al metodo di calcolo contributivo qualsiasi nuovo intervento mirato a consentire le uscite prima della soglia di vecchiaia sembra però restringere di molto il campo delle opzioni utilizzabili. E tra queste ci sarebbe quella di rendere accessibile a tutti il canale d’uscita con almeno 64 anni d’età e 20 di contribuzione, oggi di fatto consentito solo a chi è totalmente ”contributivo”. Dalle simulazioni tecniche effettuate nei mesi scorsi, che hanno fatto capolino al tavolo governo-sindacati, emerge che con il ricalcolo contributivo la riduzione dell’assegno dei lavoratori in regime “misto” (mix di contributivo e retributivo per coloro che al 31 dicembre 1995 non erano in possesso di più di 18 anni di versamenti) oscillerebbe sostanzialmente tra il 10 e il 18%.

Ma il picco di una riduzione del 18,6% del trattamento, vincolando al “contributivo” l’uscita a 64 anni, riguarderebbe un numero limitato di lavoratori in possesso fino a 17 anni di anni di versamenti al momento ”agganciati” al retributivo. Molto più ampia invece sarebbe la fetta di soggetti con una quota di contribuzione fino a sei anni riconducibile al ”retributivo” per i quali scatterebbe una riduzione dell’assegno non superiore al 10%.

Fino allo scorso febbraio, in ogni caso, il governo non ha formalizzato alcuna proposta ufficiale, a prescindere dalle simulazioni tecniche che hanno aleggiato sul tavolo. Ma è evidente che la scoglio più arduo da superare resta quello della flessibilità in uscita per i lavoratori del sistema “misto”. Anche perché i ”retributivi” puri sono destinati a non lasciare tracce in tempi relativamente brevi, come emerge dai dati monitorati da Inps e Mef: la platea in questo caso è scesa dai 297mila soggetti del 2020 a 193mila lavoratori di fine 2021, con un calo del 35 per cento.

Ma la prospettiva di aprire una via d’uscita unica a 64 anni con il ricalcolo contributivo dell’assegno non alletta affatto i sindacati, che insistono sulla possibilità di consentire il pensionamento attorno ai 62 anni, salvaguardando anche in qualche modo la quota retributiva (su cui applicare eventualmente piccole ”penalizzazioni” crescenti per ogni anno di anticipo rispetto alla soglia di vecchiaia), o, in alternativa, con 41 anni di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica. E quest’ultima non è altro che la cosiddetta Quota 41 rispolverata dalla Lega, anche se nello stesso centrodestra non sono tutti d’accordo visto che in Forza Italia c’è chi ha auspicato una Quota 104 nella somma tra età e anzianità contributiva.

Queste ipotesi non sembrano però rispettare un’altra delle condizioni irrinunciabili poste dal governo per individuare un eventuale meccanismo flessibile: la necessità di evitare un impatto marcato sui conti pubblici e, in particolare, di non appesantire ulteriormente la spesa pensionistica. Che nel 2023 è già prevista in crescita di oltre il 7% a causa della corsa dell’inflazione. Più in linea con lo schema del governo appare la proposta del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che punta, con un costo di poco superiore ai 400 milioni il primo anno, a consentire l’anticipo a 63-64 anni della sola quota contributiva per poi recuperare la fetta retributiva al raggiungimento della soglia di vecchiaia dei 67 anni. Ma tutto è legato alla ripartenza, o meno, del confronto, che viene sollecitata con forza dai sindacati e da varie forze politiche e che è auspicata dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, così come dal presidente dell’associazione Lavoro&Welfare, e presidente della Commissione tecnica sui lavori gravosi, Cesare Damiano. In mancanza di una scelta almeno in parte condivisa, al governo rimarrebbero sostanzialmente due strade da percorrere: tornare in toto nell’alveo della riforma Fornero oppure prorogare di un anno Quota 102, che però stata bocciata nei giorni scorsi da Bruxelles al pari di Quota 100.

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