Previdenza

La direttiva Ue sul salario minimo, tra contratti collettivi e nuovi interventi

Il testo imporrà agli Stati membri di adottare delle soluzioni che consentano a tutti (o quasi) i lavoratori di ricevere retribuzioni adeguate

di Giuseppe Cucurachi

Si è molto parlato in questi giorni della direttiva Ue sul salario minimo. Una direttiva non ancora approvata, tantomeno entrata in vigore, e che l’Italia attuerà tra un paio d'anni. In dettaglio, la direttiva imporrà agli Stati membri di adottare delle soluzioni che consentano a tutti (o quasi) i lavoratori di ricevere retribuzioni adeguate. In alcuni Stati membri, il salario minimo è fissato per legge; in tali Stati, dovranno essere adottati dei meccanismi per adeguarli di tempo in tempo. Gli altri Stati, in cui i salari sono fissati dai contratti collettivi, dovranno far sì che essi si applichino ad almeno il 70% dei lavoratori. Sotto questo profilo, non dovrebbe esserci nulla di travolgente per l’Italia, in cui la contrattazione collettiva copre una percentuale più elevata di lavoratori.

Da sottolineare, comunque, che la direttiva dovrebbe applicarsi ai lavoratori subordinati (che in Italia hanno già diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, ex art. 36 Cost.) e ai falsi lavoratori autonomi (quelli assoggettati ad un vincolo di subordinazione, che avrebbero comunque diritto ad essere riqualificati come subordinati, e trattati come tali). Aggiungiamo, oltre a loro, anche i collaboratori (sia pur genuini, ma etero-organizzati) che nel nostro ordinamento hanno diritti equivalenti. Restano esclusi dal campo di applicazione i lavoratori (effettivamente) autonomi, che costituiscono circa 1/5 del mercato del lavoro. In sede di attuazione della direttiva, se ci sarà la volontà politica, l’Italia potrebbe estendere anche a loro il diritto al salario minimo.

Meno scontato è se questa direttiva possa provocare un innalzamento delle attuali tariffe: è un tema sentito, in questo periodo di continue fiammate inflazionistiche. L’auspicio è che in altri Stati europei, che hanno salari medi inferiori ai nostri, la direttiva porti a ridurre il gap, per consentirci di guadagnare margini di competitività. In Italia, nella generalità dei casi, c’è da confidare nella capacità delle parti sociali di trovare un equilibrio. E nella loro memoria: la scala mobile è una delle (poche) cose che non rimpiangiamo dei primi anni ottanta. Inedita nella nostra esperienza sarebbe la fissazione per legge di un salario minimo. C’è chi dubita che lo Stato possa assumersi l’ingrato compito di determinare un importo che non si ponga in competizione né con il reddito di cittadinanza, né con i contratti nazionali di lavoro. Ben venga, comunque, una maggiore omogeneità all’interno dell’Ue su questo tema, che altri Stati hanno affrontato in maniera interessante.

L'Italia dovrebbe prendere esempio dalle esperienze estere anche quando si tratta di semplificare l'ordinamento giuslavoristico. Se vogliamo ridurre il numero di lavoratori poveri, dobbiamo innanzitutto puntare alla creazione di posti di lavoro più pregiati e meglio remunerati: dobbiamo, perciò, attrarre investimenti. Ciò impone un costante esercizio di alleggerimento (non per forza di flessibilizzazione) della disciplina. Altrove, ciò è percepito come un dovere: per noi è tabù.

Quanto alla proposta di direttiva, essa potrebbe portare ad una riduzione dei lavoratori poveri, per il semplice fatto che alcuni finirebbero fuori mercato. Nella relazione di accompagnamento si prevede espressamente un (lieve) calo dell’occupazione come conseguenza dell'aumento del costo del lavoro che la nuova normativa potrebbe provocare.



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