Previdenza

Sulle pensioni partiti prudenti, la mina indicizzazione fa paura

di Marco Rogari

È già ben visibile lungo la difficile rotta che dovrà seguire il prossimo governo per giungere a tappe forzate al varo della prossima legge di bilancio. Lo scoglio pensioni sarà uno dei primi ostacoli con cui dovrà fare i conti la maggioranza che si formerà dopo l’appuntamento elettorale del 25 settembre. E non solo perché in poche settimane l'esecutivo dovrà decidere se tornare o meno dal 1° gennaio 2023 alla legge Fornero in versione integrale, visto che il 31 dicembre si esaurirà l’esperienza annuale di Quota 102. Da disinnescare ci sarà anzitutto la mina indicizzazioni. L’impennata dell’inflazione, dovuta in gran parte al caro energia, avrà tra le sue ricadute quella di assorbire risorse significative per l'adeguamento automatico degli assegni pensionistici, che scatterà a gennaio dopo il parziale anticipo, in pagamento a ottobre, previsto dal decreto Aiuti bis. Sul piatto il governo potrebbe essere costretto a mettere nel complesso dai 15 ai 20 miliardi. Non a caso l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) martedì scorso ha lanciato un nuovo allarme sulla maggiore spesa che sarà necessaria nel 2023 per l’indicizzazione delle pensioni. I partiti lo sanno. E forse anche per questo motivo, tranne la Lega che punta forte sul superamento della “Fornero” e su Quota 41, mantengono tutti in quest’ultimo scorcio di campagna elettorale una certa prudenza su un capitolo cruciale come quello della previdenza.

Giorgia Meloni, ad esempio, non ha mai evocato in modo esplicito un superamento della legge Fornero. Nel programma di Fdi, così come in quello comune di tutto il centrodestra, si fa solo riferimento alla necessità di introdurre forme di flessibilità in uscita. Anche perché i calcoli effettuati a suo tempo dall’Inps indicano in 4 miliardi il primo anno, che diventano circa 10 a regime, il costo della Quota 41, ovvero della possibilità di accedere alla pensione con 41 anni di versamenti a prescindere dall’età anagrafica, rilanciata a più riprese da Matteo Salvini e sostanzialmente condivisa dai sindacati, così come dalla formazione Si-Verdi, alleata del Pd in questa competizione elettorale. Meloni sulle pensioni si muove insomma con cautela avendo ribadito a più riprese la sua intenzione, in caso di vittoria, di non abbandonare la linea del rigore sull’accidentato terreno dei conti pubblici.

Quella stessa cautela che su questo versante emerge dal programma dei Dem, che prevede sì la possibilità di uscita anticipata a 63 anni, ma vincolata al metodo di calcolo contributivo, che era stato indicato dallo stesso Mario Draghi nei mesi scorsi come la via maestra da percorrere per correggere l’assetto previdenziale.

E, sempre nel segno della cosiddetta agenda Draghi, il Terzo polo addirittura non prevede un capitolo previdenza nel programma. Carlo Calenda ha detto che la spesa per pensioni, che pesa quanto quella per istruzione e sanità messe insieme, va redistribuita aggiungendo che la sola flessibilità in uscita praticabile è quella per i lavoratori impegnati in mansioni usuranti. Nessun proclama, dunque.

Lo scenario macroeconomico e il quadro di finanza pubblica, del resto, sono dati in significativo peggioramento. E con questa prospettiva appare arduo garantire interventi massicci e strutturali sul sistema previdenziale, oltretutto da inserire in una legge di bilancio ipotecata in gran parte da nuove misure contro il caro-bollette e per sostenere l'economia.

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