Adempimenti

Nella nuova procedura gravi problemi pratico-applicativi

di Iacopo Aliverti Piuri


L'articolo 26 del decreto legislativo 151/2015 ha introdotto una nuova e articolata procedura che i lavoratori devono seguire per rassegnare le dimissioni o risolvere consensualmente il rapporto di lavoro.

In particolare, dal 12 marzo 2016 le dimissioni (o la risoluzione consensuale) vanno effettuate esclusivamente in via telematica utilizzando l'apposito modulo predisposto dal ministero del Lavoro; da tale data, la “tradizionale” lettera di dimissioni, così come gli accordi di risoluzione consensuale, diventano dunque sostanzialmente inutili in quanto improduttivi di qualunque effetto sul piano giuridico.

La nuova normativa determina, tuttavia, non pochi problemi da un punto di vista pratico-applicativo.

Innanzitutto, per poter rassegnare le dimissioni o risolvere consensualmente il proprio rapporto di lavoro, il lavoratore (salvo che decida di affidarsi ai soggetti abilitati, quali patronati, organizzazioni sindacali, ecc...) deve affrontare una serie di adempimenti burocratici che rischiano di posticipare la data di cessazione del rapporto di lavoro; il lavoratore che non ne sia già in possesso deve infatti per prima cosa munirsi di un codice personale Inps (codice che l'Istituto impiega circa 7/15 giorni a recapitare al lavoratore richiedente), poi deve registrarsi sul sito cliclavoro.gov.it e, infine, deve procedere alla compilazione e all'invio del modulo in via telematica.

Anche a causa della complessa procedura sopra descritta, non è affatto irrealistico ipotizzare che il lavoratore dimissionario non provveda alla compilazione e all'invio del modulo in via telematica, ma semplicemente, magari dopo aver consegnato al datore di lavoro una lettera di dimissioni, non si presenti più al lavoro.

In questi casi, poiché il rapporto di lavoro non può ritenersi giuridicamente cessato, il datore di lavoro sarà verosimilmente costretto ad avviare un procedimento disciplinare contestando al lavoratore “dimissionario” l'assenza ingiustificata e, al termine della procedura disciplinare, a licenziarlo per giusta causa.

Non tutti - e in special modo il Legislatore - sembrano però aver pensato alle conseguenze di tale scelta obbligata per i datori di lavoro e, più in generale, per la collettività.

In tali situazioni, infatti, il datore di lavoro, oltre a esporsi al rischio di un possibile contenzioso in caso di impugnazione del recesso da parte del lavoratore “dimissionario”, sarà altresì costretto a versare il contributo Naspi (il cosiddetto ticket licenziamento), dovendo quindi sostenere un costo aggiuntivo - che può arrivare anche a 1.500 euro circa - del tutto ingiustificato.

Il lavoratore “dimissionario” (ma che il datore di lavoro è stato costretto a licenziare per giusta causa) avrà peraltro diritto (ricorrendone anche gli altri relativi presupposti, primo fra tutti quello di essere disoccupato) al riconoscimento della Naspi, con conseguenti costi non solo, come detto, in capo al datore di lavoro, ma anche per l'intera collettività.

E non è tutto: la legge prevede che il lavoratore abbia sette giorni di tempo dalla trasmissione del modulo per revocare le dimissioni (o la risoluzione consensuale). In tale lasso di tempo, potrebbe per esempio accadere che il datore di lavoro assuma un sostituto del lavoratore dimissionario (o del lavoratore con il quale abbia raggiunto un accordo di risoluzione consensuale). Cosa succede, dunque, se il lavoratore dimissionario ci ripensa e, entro i sette giorni previsti dalla legge, revoca le sue dismissioni (o la risoluzione consensuale)?

Il datore di lavoro si troverà in questi casi ad avere due risorse nella medesima posizione, con conseguente necessità di gestire, con ogni probabilità attraverso un licenziamento, tale esubero.

La possibilità per il lavoratore di revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale entro sette giorni pone un altro problema di carattere pratico. Come noto agli addetti ai lavori, spesso accade che datore di lavoro e lavoratore si accordino, sottoscrivendo un apposito accordo, per una risoluzione incentivata del rapporto di lavoro. Ebbene, con la nuova normativa potrebbe accadere che, dopo aver firmato il predetto accordo contenente, tra l'altro, l'impegno del datore di lavoro a riconoscere al lavoratore una somma a titolo di incentivazione all'esodo, quest'ultimo decida di revocare la risoluzione consensuale.

Sarà dunque molto importante che i datori di lavoro prestino la massima attenzione nel redigere tali accordi di risoluzione incentivata del rapporto, considerando in particolare la possibilità che il lavoratore revochi la risoluzione consensuale entro i sette giorni.

In conclusione, è certamente auspicabile che il Legislatore intervenga quanto prima apportando le modifiche necessarie per ovviare a tutte le problematiche sopra descritte.

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