Adempimenti

Crisi aziendali, una su tre senza soluzione

di Carmine Fotina

Prima ancora di disegnare nuovi scenari industriali all’insegna dell’economia verde e della crescita sostenibile, chi guiderà il ministero dello Sviluppo economico nel prossimo governo avrà un compito non più rinviabile: accelerare e migliorare la gestione delle crisi di impresa. Dietro le emergenze più note, l’ex Ilva e Alitalia, c’è un universo di imprese da salvare.

Da un’analisi condotta dal Sole 24 Ore su oltre 150 casi trattati dal 2016 ad oggi emerge che poco più di un terzo delle vertenze si è chiuso in modo positivo. Circa il 38%. Chiusura negativa per il 34%, mentre quasi il 27% delle crisi aperte a partire dal 2016 risulta ancora in corso. Un calcolo che si ricava esaminando uno per uno i verbali con i quali negli ultimi tre anni e mezzo è stato aperto ufficialmente un tavolo al Mise (disponibili sul sito del ministero) e incrociandoli con le informazioni sindacali e con lo stato dell’arte della singola impresa.

Reindustrializzazione difficile

I risultati non sono rassicuranti. E a dire il vero prescindono anche dal colore politico dell’esecutivo di turno, considerando che i singoli dossier durano in media 28-30 mesi e alcuni sono sotto l’”ombrello” ministeriale anche da cinque anni (ex Alcoa, ex Fiat di Termini Imerese, ex Om Carrelli sono solo alcuni esempi).

In poco meno di 60 casi censiti si è arrivati alla reindustrializzazione sotto la stessa proprietà (con assorbimento totale o comunque maggioritario dei lavoratori) o con nuovi proprietari. In alcune situazioni passando per una procedura di amministrazione straordinaria, in altre attraverso operazione di fusione. Per alcuni di questi dossier il processo di riavviamento dei motori è ultimato, per altri è in fase avanzata di implementazione. Spesso decisivo per il buon esito il supporto degli ammortizzatori sociali, che invece in altri dossier ancora aperti sta consentendo per ora una soluzione conservativa in attesa di un nuovo progetto industriale.

Una cinquantina le crisi naufragate. Spiccano i fallimenti, le chiusure dell’attività con perdita totale dei posti di lavoro o con assorbimento solo parziale in altri siti della stessa proprietà. Situazioni spesso legate a una delocalizzazione. Ma ci sono anche crisi che hanno portato a un cambio di proprietà, ad esempio dopo l’amministrazione straordinaria, con perdita totale della forza lavoro originaria. In diverse occasioni sono state le multinazionali a gettare la spugna in altre al contrario proprio aziende straniere, con i cinesi in primissima fila negli ultimi anni, si sono intestate il rilancio.

Il calo delle commesse collegato alla crisi, la competizione di nuovi concorrenti mondiali e gli alti livelli dei costi dell’energia (in passato ad esempio i casi Kme e Berco più di recente ex Alcoa ed ex Lucchini di Piombino) tra i temi che sono stati affrontati in questi anni ai tavoli Mise. Commercio, siderurgia, elettrodomestici, call center, Ict e telefonia, edilizia, automotive i settori più interessati.

Governance da rivedere

Si parte spesso in ritardo, perché le segnalazioni sulle crisi in atto arrivano al ministero dello Sviluppo anche mesi dopo. In un’analisi interna di un paio di anni fa, ancora attualissima, il ministero osservava inoltre che uno dei limiti è il carattere non “cogente” dell’intero processo: gli impegni sottoscritti dalle varie parti coinvolte dal Mise non costituiscono obblighi e il loro mancato rispetto può portare al fallimento del salvataggio senza conseguenze. Così non mancano situazioni di crisi che, ritenute risolte a seguito di un accordo, in realtà si riaprono perché i termini delle intese si rivelano fragili o vengono disattesi (come nel caso Mercatone Uno).

Ma c’è anche altro. Alcuni tecnici del ministero sottolineano che l’analisi delle imprese in crisi è troppo spesso sganciata dall’attività di attrazione degli investimenti esteri, con poche eccezioni come il recente coinvolgimento dell’Agenzia Ice sul caso Bekaert. E, di fronte all’esplosione delle ore di cassa integrazione straordinaria (+99,8% rispetto a giugno rispetto allo stesso mese del 2018), c’è anche chi lamenta uno scarso coordinamento tra Mise e ministero del Lavoro. Senza contare il problema di strutture e di capacità di monitoraggio sollevato dai sindacati molto critici sulla gestione Di Maio.

Un mese fa, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il viceministro Dario Galli segnalava l’impossibilità di dare un numero dei tavoli più aggiornato dei 150-160 attualmente stimati per un totale di oltre 210mila lavoratori coinvolti. Per avviare un nuovo monitoraggio, il decreto imprese/Ilva - approvato «salvo intese» il 6 agosto e ancora in attesa di essere sbloccato - dispone la creazione di un Osservatorio con la collaborazione delle camere di commercio. E soprattutto il decreto ritocca al rialzo la struttura di gestione delle vertenze (che oggi al Mise vede impegnate appena tre persone più il vice capo di gabinetto Giorgio Sorial) prevedendo fino a 20 nuovi ingressi con competenze specifiche, con uno stanziamento di 1,5 milioni annui.

La nuova struttura, in base al riassetto del ministero che entrerà in vigore il 5 settembre, nascerà all’interno della Direzione politica industriale. E dovrà coordinarsi con il segretario generale del Mise, Salvatore Barca, e con la sua Divisione crisi d’impresa affidata al dirigente Alessandro Caroselli, che finora si era prevalentemente occupato di tlc e banda larga.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©