Adempimenti

Più formazione nelle politiche attive

di M.Pri.

Le politiche del lavoro in Italia sono sbilanciate su quelle passive e la quota di risorse destinata a quelle attive si basa principalmente su incentivi alle assunzioni, invece che alla formazione. Una situazione su cui occorre intervenire per una ripresa dell'occupazione. Questa l'indicazione che emerge da una ricerca realizzata dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro, presentata ieri.

La Fondazione ha, da una parte, confrontato alcuni dati nazionali con quelli di altre tre nazioni europee, dall'altra ha evidenziato alcuni problemi che affliggono le politiche del lavoro italiane. Nel 2018 il nostro Paese ha destinato 26,9 miliardi di euro a questa finalità, a fronte dei 26 miliardi della Spagna, dei 46,5 della Germania e dei 62,7 della Francia. In importi procapite, considerando i cittadini di età tra i 15 e i 64 anni, ciò significa che per ogni italiano sono stati messi sul piatto 697 euro, per ogni spagnolo 846 euro, 869 per un tedesco e 1.534 euro per ogni francese. Una bassa spesa non è di per sé elemento negativo, anzi, se gli interventi raggiungessero gli obiettivi, sarebbe indicatore di efficacia ed efficienza. Ma ciò in Italia non avviene, dato che chi perde l'impiego fatica a trovarne uno nuovo.

Rispetto agli altri tre Paesi, l'Italia ha una quota di incidenza della spesa delle politiche passive rispetto al totale (75%) non troppo distante in almeno due casi (anche in Spagna e Francia si aggira intorno al 70%, mentre in Germania è il 50%). La grande differenza è nella destinazione delle politiche attive, dato che da noi sono costituite per lo più da incentivi riconosciuti alle aziende a fronte dell'assunzione di lavoratori e poco sulla formazione e riqualificazione degli stessi.

La ricerca evidenzia come, dal 2008 al 2018, le politiche attive si siano sempre più orientate a sostenere la domanda di lavoro tramite sgravi e incentivi vari, piuttosto che a formare i lavoratori per facilitare un ritorno in azienda: in dieci anni, ogni 100 euro spesi, la quota destinata alla formazione è passata da 50,2 a 30 euro, mentre gli incentivi per le assunzioni sono passati da 40 a 67 euro. Peraltro con scarsi effetti nel lungo periodo, dato che, sottolinea sempre la ricerca, ogni 100 assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2015, quando si poteva fruire di uno sgravio contributivo triennale, solo 35,5 erano ancora esistenti tre anni dopo. In Germania, invece, il 71% dell'importo delle politiche attive è destinato alla formazione, mentre in Francia il 48 per cento.

Tutto ciò a fronte del fatto che in Italia abbiamo la più alta quota europea di disoccupati da oltre dodici mesi rispetto al totale e che la maggior parte di chi fatica a trovare un nuovo impiego ha un basso grado di istruzione. La scarsa efficacia del sistema è testimoniata anche dai risultati ottenuti dalla sperimentazione dell'assegno di ricollocazione destinato, nella versione iniziale, ai percettori di Naspi da oltre quattro mesi: la quota di persone che lo ha utilizzato e ha trovato un impiego è di soli 3,3 punti percentuali più alta rispetto a chi non ne ha fruito, trovando comunque nuova occupazione.

«Il focus sulle politiche attive per il lavoro è fondamentale per poter pensare a una ripresa organica dell'occupazione e, di conseguenza, dell'economia. Ben venga allora l'apertura del Governo Draghi a investire sull'assegno di ricollocazione purché si tenga presente che la platea dei destinatari al momento comprende solo la metà dei disoccupati involontari – ha affermato Marina Calderone, presidente del consiglio nazionale dell'Ordine dei consulenti del lavoro e del Comitato unitario delle professioni -. Necessario incidere sulla qualità dell'offerta più che sull'incentivazione della domanda attraverso formazione e riqualificazione, diminuendo il divario tra posizioni ricercate e competenze disponibili».

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