Adempimenti

Scuola-lavoro, i sei grandi nodi che frenano la ripresa del Paese

di Claudio Tucci

C’è un Paese che sta crescendo, spinto dalla manifattura. Ma se non si affrontano subito nodi e ritardi storici del rapporto scuola-lavoro si rischia una brusca frenata a danno di tutti, giovani in testa, non solo del mondo produttivo. Il perché è presto detto.

Ancora oggi, secondo le ultime elaborazioni del Centro Studi Confindustria, il 40% circa delle imprese di meccatronica, energia, grafica e chimica non riesce a trovare le risorse occorrenti; si supera il 50% di difficoltà nei settori dell’elettronica-elettrotecnica, turismo, amministrazione e finanza. A detta di Unioncamere-Anpal, sistema informativo Excelsior, il “mismatch” pesa sui profili tecnico-scientifici: lo scorso anno, nonostante il Covid, sono mancati ai nostri imprenditori ben 83mila diplomati Its. Praticamente, sono introvabili tutti i potenziali candidati necessari per spingere la ripresa in atto: nelle previsioni Excelsior al 2025 il fabbisogno di competenze digitali, Stem, e di innovazione 4.0 con skill elevate sarà tra 886mila e 924mila unità. Ebbene, già oggi, vedendo il trend di iscritti a università e Its sappiamo che metà di queste persone non verrà trovata.

Il punto è che ormai tutti indicano nello scollamento tra scuola e lavoro, aggravato dai governi Conte, una delle “mine” più serie al rilancio dell’Italia. Assieme agli esperti dell’area Lavoro, welfare, capitale umano di Confindustria abbiamo analizzato gli ultimi dati, nazionali e internazionali, sul fronte giovani-formazione-lavoro e il risultato è drammatico. Sei sono i maxi-nodi su cui occorre agire. Primo, l’abbandono precoce dagli studi, peggiorato da virus e scarsa qualità della Dad. All’università lascia al primo anno un giovane su quattro, specie nelle facoltà tecnico-scientifiche. La “fuga” è anche intra-italiana: è stato calcolato che ogni anno 1 laureato meridionale su 3 abbandona il Sud per lavorare all’estero o al Nord-Italia. Dal Sud va via il 31% dei giovani laureati in atenei meridionali, con impoverimento intellettuale e tecnico di quei territori. Secondo lo Svimez, ogni dieci minuti un giovane emigra dal Sud verso il Nord. Nell’ultimo anno più di 65mila under 30.

Il secondo nodo è il basso numero di laureati Stem (Science, Technology, Engineering e Mathematics), specie tra le donne. L’Italia ha un 24,7% di laureati Stem nella fascia tra 25-34 anni (fonte Istat). Siamo sopra al Regno Unito (22,3%), restiamo però dietro Francia (26,8%), Spagna (27,5%) e Germania (32,2%). A pesare è la differenza di genere: le giovani laureate Stem da noi sono il 16,2%, contro il 36,8% di laureati uomini. Percentuali ancora più basse per gli Its, che già hanno pochi iscritti: dal monitoraggio Indire è emerso che solo il 27,4% degli studenti è donna. Eppure, secondo Almalaurea, proprio le donne rappresentano un potenziale enorme, visto che costituiscono oltre la metà dei laureati in Italia e sono più regolari negli studi.

Il terzo numero da cambiare è l’elevato livello di giovani disoccupati o peggio Neet. In Italia, secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione degli under25 è tornato a sfiorare il 30%, siamo in fondo alla classifica internazionale, peggio di noi solo Spagna e Grecia. E con i Neet facciamo, se possibile, ancora peggio: complice l’emergenza sanitaria sono esplosi, 2,1 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, in aumento di quasi 100mila unità rispetto al 2019.

Il quarto allarme è lo smantellamento del rapporto scuola-lavoro. L’effetto più diretto lo ha rivelato Eurostat: in Italia le transizioni scuola-lavoro (dal titolo di studio al primo impiego) hanno tempi lunghi, circa 10 mesi in media. Contro i 3-4 mesi dei paesi Ue, Austria, Germania, Paesi Bassi, Danimarca, dove è trainante la formazione tecnico-professionale (Vet). Il quinto grave ritardo italiano riguarda l’apprendistato, in primis quello duale. La fotografia Inapp-Inps lascia di sasso: gli apprendistati di primo livello sono meno del 3% del totale, e sono tutti al Nord. Ancora peggio per gli apprendistati di alta formazione e ricerca (terzo livello), che non raggiungono il migliaio. Tra i problemi ci sono anche gli incentivi, poco efficaci: il principale di essi, Garanzia giovani, è stato utilizzato solo dal 5% dei contratti. Il sesto, e ultimo, nodo da affrontare riguarda la riforma degli istituti tecnici e professionali, per legarli di più e meglio a lavoro e territori, visto che oggi fanno fatica e c’è un alto abbandono. Anche qui gli effetti sono impressionanti: nel 2020 le imprese non hanno trovato ben 318mila periti e diplomati professionali. Per rendere l’idea è come se, lo scorso anno, fosse sparita l’intera città di Bari, e con essa fabbriche e posti di lavoro. Tutto ciò per quanto potremo ancora permettercelo?

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