Rapporti di lavoro

Lo spartiacque sul fatto materiale

di Angelo Zambelli

Una delle novità più rilevanti della legge 183/2014 di riforma del mercato del lavoro , nell'ambito dei licenziamenti disciplinari, delega il Governo a limitare le ipotesi di reintegrazione del lavoratore a «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Un tentativo di riduzione dei casi di reintegrazione è stato già fatto dalla riforma Fornero (legge 92/2012) che limita la tutela reintegratoria ai casi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per «insussistenza del fatto contestato» ovvero «perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», prevedendo altresì un risarcimento del danno retributivo patito dal lavoratore entro il limite di 12 mensilità di retribuzione (dedotto quanto percepito o percepibile dal medesimo nel periodo intercorso tra la data di licenziamento e quella di reintegrazione), oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Diversamente, nelle «altre ipotesi» di accertata illegittimità del licenziamento disciplinare, ad esempio in caso di ritenuta sproporzionalità della sanzione irrogata, è prevista esclusivamente la corresponsione di un'indennità risarcitoria variabile tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità di retribuzione.

Le previsioni hanno creato notevoli dubbi interpretativi, sia per la scarsità e genericità delle previsioni contrattuali conservative contenute nei contratti collettivi sia per le differenti interpretazioni giurisprudenziali sulla nozione di «fatto contestato». In tale contesto, e nell'ottica di eliminare le incertezze applicative, una delle possibili soluzioni sui tavoli tecnici dell'Esecutivo potrebbe essere quella di eliminare il riferimento alle tipizzazioni disciplinari dei contratti collettivi e limitare la reintegrazione solo ai casi di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, aderendo in sostanza al recente indirizzo della Cassazione (sentenza 6 novembre 2014, n. 23669) che ha precisato che il fatto contestato deve essere accertato esclusivamente nella sua componente materiale e non giuridica. In pratica, nel caso in cui venisse addebitato al dipendente un furto e, successivamente al licenziamento, venisse dimostrato che il furto contestato in realtà non è avvenuto (o è avvenuto per opera altrui), il dipendente avrebbe diritto ad essere reintegrato in azienda.

Il Governo starebbe lavorando anche all'introduzione di un meccanismo di “opting out”, secondo cui in caso di ordine di reintegrazione da parte del giudice l'azienda potrebbe, al fine di non riprendere il lavoratore in organico, corrispondere a quest'ultimo un risarcimento di una mensilità e mezzo per ogni anno di anzianità, variabile tra un minimo di 6 mensilità sino ad arrivare ad un massimo di 30 mensilità (forse addirittura 36). Il lavoratore , in caso di rifiuto, dovrà restituirla al datore di lavoro entro un termine molto ristretto, decorso il quale l'opzione sarà considerata validamente esercitata.

In tutti gli altri casi di licenziamento disciplinare illegittimo non rientranti nelle fattispecie che danno luogo al reintegro, di contro, vi sarà soltanto la previsione di un'indennità economica. L'ipotesi di indennizzo al vaglio del Governo consisterebbe, in particolare, nella corresponsione di una frazione della retribuzione (una mensilità o una mensilità e mezzo, si parla anche di due) per ogni anno di anzianità, con la previsione di un limite massimo (e, forse, anche di un limite minimo).

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