Rapporti di lavoro

Gli studi come aziende per garantire qualità

di Giuseppe La Scala *


La scomparsa – qualche giorno fa – di Franco Bonelli, uno dei più noti avvocati italiani, ha fatto tristemente divenire reale lo scenario teorico sul quale si era innestato da alcune settimane il dibattito che percorre l' avvocatura sulla “istituzionalizzazione” degli studi legali.
Nemmeno due mesi fa “Bonelli Erede Pappalardo” - la più grande “law firm” italiana da lui cofondata - aveva infatti cambiato denominazione e operato un deciso restyling.
Da allora si chiama “BE”, ovvero “BonelliErede”, senza spazi in mezzo, passando da una classica ditta composta dai “name partners”, ad una insegna più astratta e destinata a permanere anche quando, come è putroppo accaduto troppo in fretta, alcuni o tutti i fondatori saranno fisiologicamente usciti dalla compagine dei soci.
Esattamente ciò che è avvenuto negli studi anglosassoni di più antica data, le cui denominazioni fanno riferimento a partner di qualche decennio (se non secolo !) addietro e la cui esistenza è ormai leggendaria.
Contemporaneamente, l' avvocatura più tradizionalmente legata al clichè dell' organizzazione forense nel nostro paese (studi unipersonali; tutt' al più condivisioni delle spese con altri colleghi, e di natura “condominiale” più che societaria) lancia i suoi appelli al mantenimento del rapporto personale tra studio e professionista, invocando la centralità del legame fiduciario tra il cliente e l' “individuo” in carne e ossa che ogni singolo avvocato rappresenta, con i suoi infungibili skill.
E, dunque, cerca di ostacolare l' introduzione di forme societarie che permettano, appunto, di privilegiare una maggiore istituzionalizzazione (ad iniziare dalla denominazione “astratta” e - come è facile capire – dai conseguenti investimenti sul branding) e, magari, l' ingresso nelle società di legali anche di soci non professionisti che potrebbero finanziarne i processi di crescita e gli investimenti sulle strutture.
Mi pare, tuttavia, che l' esito del dibattito sia scontato se la questione viene affrontata dal punto di vista dell' economia nazionale (alla quale per lo più accedono i servizi legali di maggiore rilievo).
Ferma restando, infatti, la libertà per ogni avvocato di organizzarsi ancora in modo mononucleare - a maggior ragione se si ritiene che solo strutture di questo tipo (ma è poi vero ?) possano garantire indipendenza, soprattutto nella tutela dei diritti dei privati – mi pare chiaro che le imprese nel nostro Paese che puntano a maggiore efficienza e competitività abbiano bisogno di servizi legali che, ben lungi dal fare perno sulla figura del singolo avvocato (professore o faccendiere, consigliere o consigliori), siano organizzati in strutture articolate, specializzate o interdisciplinari; portatrici di una specifica identità e cultura professionale che prescinda dai loro partner “pro tempore”.
Per tornare all' esempio dal quale siamo partiti, e aldilà della eccezionalità della figura di Franco Bonelli, credo che nessuno dei clienti del suo studio possa ragionevolmente temere che la altissima qualità dei servizi loro offerti (e che sono garantiti grazie a una intera compagine di soci di prim'ordine e un lavoro di squadra esemplare) possa anche solo modestamente diminuire in seguito alla morte del name partner.
Sono gli studi legali che a queste logiche si ispirano, a poter rispondere - salvo le debite eccezioni - alla crescente domanda di prestazioni di qualità, con standard internazionali. Anche perché i loro prezzi - dopo la crisi - sono di sicuro più abbordabili.
Tutto il resto mi pare destinato a rivestire un ruolo marginale nel diritto dell' economia.
Più di 10 anni fa i soci che avevano fondato con me il nostro studio rinunciarono al loro “nome in ditta”, lasciandovi solo il mio.
Ciò per semplificare il nostro brand e favorire l' ingresso di altri soci in condizione paritaria con loro, senza essere costretti a denominazioni chilometriche e variabili di anno in anno.
Da questa operazione generosa e lungimirante è incominciato il nostro percorso nella maturità professionale (siamo alle soglie del 25° anno di partnership), senza mai perdere di vista la direzione della crescita dimensionale e del confronto con i grandi studi.
Oggi i soci di “La Scala” sono quasi 20 e i professionisti che lo Studio schiera circa 115.
Ma è il dato dello staff che fa pensare: dei circa 75 dipendenti il 44% è laureato ed è guidato da un direttore generale che proviene da Ernst & Young.
Non sappiamo più cosa siano le “dattilografe”, ma abbiamo - tra l' altro - esperti di IT che lavorano al fianco di una bibliotecaria (anzi: una knowledge manager) con un master, piuttosto che ad una vera responsabile delle risorse umane e a una struttura di controllo di gestione che non molte aziende industriale delle nostre dimensioni si permettono.
E l' anno scorso, per la funzione di reporting del contenzioso massivo, abbiamo selezionato tra laureati in statistica.
Tutto ciò, ovviamente, non rappresenta una ricetta infallibile per vincere le sfide della moderna attività professionale.
Ma ci rende assai più tranquilli – credeteci – dei nostri colleghi solitari.

* senior partner di LA SCALA – Studio Legale

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