Rapporti di lavoro

I giovani pagano le carenze formative

di Carlo Carboni

Mentre si avviano le prime timide sperimentazioni di politiche attive del lavoro con l’Anpal e non si spengono le polemiche sui voucher, la disoccupazione giovanile resta elevata. Disoccupazione e neet, ormai sono due grandi parcheggi per giovani. È una ferita strutturale, di cui si occupano la famiglia, come ammortizzatore sociale, e l’opinione pubblica. La politica o “vola alto”, tra reddito e lavoro di cittadinanza - senza per altro chiarire nulla sui nuovi modelli sociali impliciti - oppure trascura la “questione giovanile”.

Gli interventi di contrasto adottati hanno dato limitati risultati e i giovani rischiano d’incubare marginalità sociale. Ci sono un paio di attenuanti a questa situazione drammatica: la disoccupazione giovanile è fenomeno strutturale diffuso anche nella Ue, ma in misura inferiore (22%). Inoltre, l’abbondanza di offerta di lavoro non è una novità per l’Italia, ma una costante storica della sua modernità novecentesca. La mancanza di lavoro però oggi colpisce in prevalenza i giovani, outsider e potenziali nuovi emigranti: si è insider da 40 anni in su, oltre i quali il tasso di disoccupazione cala drasticamente a livelli europei.

L’eccedenza di offerta di lavoro giovanile è un paradosso per una società che rapidamente invecchia. Tra le cause di questo fenomeno, due sono largamente accreditate. La prima è che i turnaround tecnologici e organizzativi a cui si sono sottoposte le aziende in questi anni di marosi economici e finanziari, hanno penalizzato il turn over occupazionale (Pa inclusa).

L’altra è quella di sempre, che già Sylos Labini suggeriva, per cui in Italia non c’è una domanda di lavoro adeguata a una nazione altamente istruita: in fondo, un ammonimento alle famiglie italiane a non confidare troppo sul famoso “pezzo di carta”. Tuttavia, questa interpretazione, che individua nella domanda di lavoro la causa della disoccupazione giovanile, non regge dopo la terza rivoluzione industriale (computer-internet) e dopo il deciso passaggio - nei termini di Lester Thurow -dal labour power al brain power.

Innovazione e nuove tecnologie richiedono un investimento “a prescindere” in capitale umano e sociale e quindi in istruzione e formazione. Un’esternalità di competenze diffuse è considerata un prerequisito sia per attrarre e fare business innovativo sia per una crescita endogena più robusta del Paese: da un ampio sottobosco professionale possono nascere imprenditorialità e reti di competenza 4.0.

L’inadeguatezza della scolarizzazione e della scuola in Italia spinge la disoccupazione giovanile e i neet. In Europa, siamo maglia nera per studenti (da livello prescolare fino università: meno di 1 su 5, contro 1 su 4 di Francia e Germania, EC 2015).

Siamo maglia nera anche per spesa d’istruzione sul totale della spesa pubblica divisa per funzione (7,9% contro 10,6% media Ue).In Germania il tasso di disoccupazione giovanile è 1/5 di quello italiano. Non è solo dovuto alla migliore crescita dell’economia tedesca o alla diffusione della sottoccupazione (i mini jobs tra i giovani), ma anche a una loro elevata scolarizzazione. L’obbligo scolastico è 19 anni in Germania. Al contrario, in Italia l’obbligo è fermo a stento ai 16 e l’abbandono scolastico è significativo tra i 16 e i 20 anni. Nonostante i nostri laureati siano decuplicati (erano appena 600mila nel ’65) e poco meno che decuplicati anche i diplomati, oggi mancano all’appello scolastico-universitario oltre un milione di giovani, per essere un po’ più europei.

Se lo fossimo, il tasso di disoccupazione tra i giovani italiani (fino a 25 anni) scenderebbe sensibilmente. Ancor di più se il 30% dei nostri giovani si trovasse impegnato in attività di studio/formazione e lavoro come accade ai coetanei europei, una condizione conosciuta solo dal 9% dei giovani italiani tra i 16 e i 25 anni. Se fossimo in Europa anche come scuola e università, ci sarebbero meno giovani “a spasso“ (si diceva una volta), inchiodati a vite virtuali (oggi).

Portare l’obbligo scolastico a 18 anni e ridurre di un anno la secondaria, favorendo il passaggio a corsi universitari triennali, sembrerebbe un passo di una riforma da fare, sostenuta da un diritto allo studio sostanzioso e da investimenti adeguati a organizzare, presso i nostri istituiti scolastici e università, il job placement dei loro studenti, tenendo conto dello stato comatoso in cui versano centri per l'impiego e formazione in molte regioni italiane.

Morale: per i giovani tra 18 e 25 anni contano proprio le “terre di mezzo” tra scuola e lavoro, dove più gravi sono i nostri ritardi. Per contrastare la disoccupazione giovanile, occorrono investimenti in nuovi settori, politiche attive del lavoro e, magari, l’abbattimento del cuneo fiscale (10 punti in più della media Ue), almeno per i giovani, come sostiene Vincenzo Boccia.

Sarebbe opportuna anche una legge quadro di riorganizzazione delle misure già esistenti in tema di condizione giovanile e lavoro. Tuttavia, senza una rete di accompagnamento pragmatico della scuola e dell’università al mondo del lavoro, continueremo a esporre i nostri giovani al contagio domestico e silenzioso della disoccupazione.

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