Rapporti di lavoro

Il Primo Maggio, i giovani e quel che non si dice

di Alberto Orioli

Per un capriccio del calendario in questa prima settimana di maggio ricorre il settantesimo anniversario della strage di Portella della Ginestra e del primo volo Alitalia Torino-Roma-Catania.

La mattanza siciliana e i suoi misteri saranno ricordati oggi dai segretari di Cgil, Cisl e Uil in occasione della Festa del Primo Maggio, leit motiv la necessità di garanzie e di diritti per il lavoro: allora la lotta al latifondismo per l’occupazione delle terre abbandonate, oggi la lotta per l’occupazione tout court.

Di quel primo volo non si dirà nulla perché la vertenza Alitalia finora ha segnato una pagina tristissima del sindacalismo confederale, sconfessato da una base distante e statalista e dalla concorrenza delle sigle più corporative e demagogiche.

Eppure il caso Alitalia può essere paradigmatico per ciò che è ormai diventato il lavoro globalizzato, ma anche per ciò su cui la rappresentanza degli interessi dei lavoratori deve riflettere. A cominciare dalla deriva pericolosa creata dall’ideologia della disintermediazione sociale, a sua volta corollario del mito della democrazia diretta, possibilmente online, in cui il leader parla direttamente al popolo, considerato nella sue diverse accezioni: popolo di cittadini elettori, consumatori, contribuenti, lavoratori. Sempre più spesso popolo-audience.

Senza mediazione sociale resta solo il nugolo delle pulsioni individuali e la sintesi diventa impossibile se non attraverso il denominatore comune dell’emotività di pancia, brutalmente una sommatoria di egoismi.

Nel caso Alitalia la linea della ragionevolezza e del realismo, propria di ogni situazione di drammatica ristrutturazione aziendale, non ha trovato seguito nei lavoratori, abbacinati dalla propaganda di chi ha puntato tutto sul non-detto della possibile nazionalizzazione della compagnia di bandiera. Un non-detto che ha guidato decenni di relazioni industriali in quella società. Progetto oggi anacronistico e che già ha assorbito risorse ingentissime dei contribuenti.

Ciò che fa di questa vicenda un simbolo delle distorsioni contemporanee è la conferma di quale sia il vero spread da temere: la distanza tra la complessità delle situazioni economiche e sociali in un mondo interconnesso e globalizzato e la iper-semplificazione dei messaggi di chi propone diagnosi e terapie con battute e slogan, fabbricati a uso dell’emotività basica dei gruppi sociali di riferimento. Diventa anche la prateria ideale dove scorrazzano indisturbate le famigerate fake news.

Il tema del lavoro, come altri, non è mai semplificabile. Tantomeno oggi. Intreccia l’anomalia di una formazione universitaria poco diffusa e, al contempo, centrata su profili che chi dà lavoro non cerca, con l’apartheid verso i giovani, in un Paese dominato dalla tendenza all’invecchiamento, ossessivo nella discussione sulla spesa per welfare e pensioni e assai meno attento alle risorse da destinare alle politiche attive per far incontrare domanda e offerta di occupazione. Il Primo Maggio, per avere senso, deve sfidare la pigrizia culturale di chi conduce la discussione pubblica e la mantiene ferma a stereotipi lavorativi del Novecento, senza contare che l’occupazione sarà sempre più destinata a intrecciare forme di auto-imprenditorialità e a trovare nuovi equilibri (e nuovi saperi) con l’avvento sempre più massiccio del lavoro dei robot e dell’intelligenza artificiale. E senza contare il crescente peso di una nuova forma di emigrazione dei talenti.

La battaglia di retroguardia sui voucher sta lì a dimostrare quanto anche il dibattito sindacale sia ancorato a un totem di diritti distante anni luce dai veri mega-trend del lavoro: il formalismo dell’abolizione del voucher ha eliminato uno strumento semplice che portava contributi all’Inps facendo uscire dalla zona grigia o dal sommerso spezzoni di lavoro esistenti e destinati ora a tornare fuori dai radar. Bastava punire gli abusi. Adesso la forma (o il formalismo) dei diritti sarà salva, la realtà rimarrà solo un’incombente sfida all’ipocrisia.

I giovani sono le vittime vere di questa situazione. Hanno vissuto, da ormai un paio di generazioni, in una idea precaria del lavoro, da outsider, e il riscatto per chi si è sentito un “paria” diventa spesso il sogno o la fuga in avanti; magari inventando una app o un blog da influencer di successo da “vendere” a qualche gigante del web per poi vivere di rendita e ritentare la sorte. È lavoro subordinato? Parasubordinato? A chiamata? È fare impresa? Probabilmente non è nulla di tutto questo e l’eterno dibattito sulle regole parla sempre d’altro. Soprattutto se l’idea del lavoro si trasforma nel prodotto di altrettanti “rentier di se stessi”, in un’idea di vita come “mosconata” speculativa.

Del resto è difficile scommettere su percorsi formativi certi che possano davvero dare la garanzia del lavoro futuro in questa Italia dove scuola e impiego sono così scollegate. Dove servono più saldatori specializzati o gestori di big data che non avvocati (di cui l’Italia continua a essere in sovrannumero). La confusione è grande sotto il cielo di un federalismo slabbrato che ha proprio nella formazione il suo principale esempio di inefficienza regionale (simbolo tra l’altro della velocità diseguale tra Nord e Sud).

Il fatto che, come scriviamo qui a fianco, anche il progetto europeo di Garanzia giovani finisca in Italia per camuffare semplici stage (nel 68% dei casi) è segno di un errore strategico. Sarebbe meglio che la Garanzia giovani si traducesse in sempre maggiori casi di contratti di apprendistato, ma questa fattispecie di ingresso al mercato del lavoro è da sempre indebolita dalle scarse risorse e dalla incapacità delle Regioni di renderlo strumento appetibile per l’impresa. Un bel tema da Primo Maggio, ma non ne parla nessuno.

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