Rapporti di lavoro

In Italia l’anello debole restano le politiche attive

di Marzio Bartoloni e Claudio Tucci

Non è questione solo di «Garanzia giovani», finanziata con 1,5 miliardi di euro, che ancora non riesce a decollare. E probabilmente, neanche dell’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria solamente nel 2015 (nelle ultime tre classi delle superiori), che al primo anno di attuazione concreto ha portato a un contatto diretto con le aziende appena uno studente su tre.

A spiegare un tasso di disoccupazione giovanile che da noi, a marzo, ultimo dato disponibile Istat, è al 34,1% (fanno peggio dell’Italia solo Grecia e Spagna) è anche un sistema di politiche attive, che si conferma, fino adesso, l’anello debole del nostro mercato del lavoro. Riformata dal Jobs act nel 2014 con l’intento di migliorare le performance dei centri pubblici per l’impiego, con la nascita di un’Agenzia nazionale (Anpal), la nuova macchina è, di fatto, partita solo da pochi mesi, con l’invio a un campione di 30mila disoccupati delle prime lettere di ricollocazione. A pesare sul (lento) avvio di Anpal sono stati gli innumerevoli passaggi burocratici, e il rapporto con le Regioni, rimasto a oggi invariato a seguito dei risultati del referendum costituzionale del dicembre scorso (è rimasta la competenza concorrente).

Giovani e non solo: in Italia la disoccupazione di lunga durata (oltre 12 mesi) resta un problema, e qui a essere chiamata in causa è soprattutto la fascia di lavoratori tra i 40 e i 50 anni, magari espulsi dal lavoro a seguito dei processi di ristrutturazione aziendale. Anche per loro le politiche attive restano un “salvagente” fondamentale.

Certo, i robusti incentivi al lavoro stabile un effetto, in questi anni di crisi, lo hanno avuto; e ora, esauritisi, stanno tornando su i contratti a termine e l’apprendistato (qui essenzialmente per ragioni di minor costo).

L’Italia, poi, come gli altri Paesi più sviluppati si troverà ad affrontare gli effetti dirompenti della quarta rivoluzione industriale sul mercato del lavoro. Ieri l’Ocse ha presentato un rapporto proprio su questo fronte - «La nuova rivoluzione industriale: implicazioni per i governi e per le imprese» - che non nasconde i vantaggi, ma anche i grandi rischi sia per le aziende che per il mercato del lavoro. Per le prime è cruciale adeguarsi allo sviluppo tecnologico che trasformerà tutti i comparti produttivi, l’alternativa è quella di essere tagliati fuori. Ma l’impatto delle nuove tecnologie - avverte il rapporto - si farà sentire con forza anche sulla disponibilità e sulla natura dei posti di lavoro. Per questo secondo l’Organismo di Parigi c’è la necessità che i leader politici monitorino e gestiscano il processo di adeguamento, adottando politiche mirate, sul fronte della mobilità del lavoro e della formazione dei lavoratori. Visto che secondo l’Ocse i due terzi di chi abita in uno dei Paesi più sviluppati non hanno le competenze adeguate per la nuova era digitale. In Italia solo 14 laureati su mille hanno un diploma nelle materie scientifiche Stem, quelle più appetibili oggi sul mercato del lavoro. Il tema della formazione e delle competenze digitali sarà anche sul tavolo del G-7 di Taormina: «Ci aspettiamo un impulso dei leader di proposte precise e concrete» ha spiegato Raffaele Trombetta, sherpa del primo ministro italiano per il G7. La presidenza italiana ha sviluppato su questo fronte «un piano di azione che si basa su tre capisaldi: la diffusione dell’innovazione nell’industria,lo sviluppo delle competenze e la formazione e riqualificazione dei lavoratori durante lungo tutto l’arco della vita attiva».

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