Rapporti di lavoro

Riqualificare in anticipo il dipendente in uscita

di Claudio Tucci

Il governo apre il dossier “crisi aziendali”. Dopo aver stanziato oltre 200 milioni di euro per tamponare l’emergenza occupazione-sviluppo nelle “aree industriali complesse” (da Piombino in Toscana, a Gela in Sicilia), e avviato l’assegno di ricollocazione per favorire il reimpiego dei lavoratori licenziati individualmente (a marzo è partita una prima sperimentazione con l’invio di circa 30mila lettere), l’esecutivo Gentiloni ha, ora, deciso di allargare lo sguardo, e, facendo leva sulle politiche attive, sta studiando una nuova disciplina per affrontare, complessivamente, tutte le crisi d’impresa, soprattutto quelle che portano a licenziamenti collettivi (legge 223 del 1991).

Il “fascicolo” è sul tavolo di Marco Leonardi, a capo del team economico di palazzo Chigi, ed è pronto a essere approfondito con le parti sociali. Se ci saranno convergenze, l’intero pacchetto potrebbe entrare nella prossima legge di Bilancio, accanto alla decontribuzione triennale per gli under 32-35.

L’esigenza principale è anticipare il più possibile, fin dal primo giorno di cassa integrazione, le attività di riqualificazione del personale che, poi, lascerà l’azienda. L’idea è consentire ai Fondi interprofessionali di entrare in questo meccanismo, ampliando il loro raggio d’azione anche in favore del personale in uscita (per far ciò è necessaria una modifica legislativa). Si coinvolgerebbero da subito lo Stato, le imprese e le regioni in questo modo: l’Anpal metterebbe a disposizione un assegno di ricollocazione “collettivo”, appunto, pagato dallo Stato. All’imprenditore che attua l’atto di recesso verrebbe chiesto un contributo, che diventa “un incentivo” all’impresa che offre un impiego al lavoratore licenziato. Le regioni, su base collaborativa, oltre a supportare con proprie misure, orienterebbero le persone disoccupate verso la domanda di lavoro del singolo territorio.

La necessità dell’intervento è spiegata dall’esecutivo con le modifiche al regime dei sussidi operate dal Jobs act: con le nuove regole targate Renzi-Poletti, la cassa integrazione ha oggi una durata limitata (24 mesi, più altri 12 in determinati casi, nell’arco di un quinquennio mobile) ed è diventata più costosa per le imprese utilizzatrici. Da gennaio, poi, non ci sono più cassa e mobilità in deroga. Per gli imprenditori, inoltre, non c’è più la tassa di licenziamento, mentre continuano a pagare il contributo Naspi (lo 0,41 per cento).

Per il governo il nuovo quadro regolatorio comporta economie per le aziende: la cancellazione del contributo di mobilità (0,30%) fa risparmiare circa 400 milioni. Più di 100 milioni vale poi la soppressione della tassa di licenziamento (3 mesi di mobilità, in caso di licenziamento collettivo con accordo sindacale, la stragrande maggioranza dei casi). A fronte di queste cifre, con l’incentivo da destinare al nuovo datore che assume si chiederebbero indietro poco più di 100 milioni. Aggiungendo il contributo Naspi, il minor esborso, stimato da palazzo Chigi, per i datori si aggirerebbe sui 300 milioni. Ogni anno, infatti, sono circa 70mila unità i lavoratori licenziati con procedura collettiva. Dal canto suo l’Erario, investirebbe una cifra pari a quella richiesta alle imprese attraverso l’assegno di ricollocazione “collettivo”. Poi ci sono i fondi interprofessionali, e le regioni.

La procedura delineata da palazzo Chigi esclude qualsiasi nuova modifica alle regole sulla Cig. Potrebbe esserci però un’eccezione per le crisi industriali più complicate: se c’è un nuovo acquirente e una concreta prospettiva di ripartenza si potrebbe pensare di autorizzare qualche mese di cassa in più per completare l’operazione (e salvaguardare così investimento e livelli occupazionali).

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