Rapporti di lavoro

Serve un equilibrio (vero) fra le regole e l’economia

di Guido Alpa

Il rapporto dell’ Ocse 2017 riguardante l’Italia esprime apprezzamento per le riforme attuate e sottolinea che restano ancora importanti sfide da cogliere, e quindi sollecita un ulteriore sforzo per ampliare e migliorare la concorrenza nel mercato.

È evidente che, in un sistema come il nostro, incluso nel Mercato Unico, la concorrenza e la sua disciplina costituiscano uno dei valori prioritari, ma due osservazioni debbono essere fatte.

La prima. Nel mercato – se così vogliamo chiamarlo, anche se sarebbe preferibile definirlo “settore” – delle professioni si sono succeduti negli ultimi anni interventi governativi e parlamentari di grande momento.

Per le professioni “protette”, che tutelano diritti garantiti dalla Costituzione (ad esempio, l’avvocatura e la medicina) il nostro Paese si è adeguato alla disciplina comunitaria.

Anzi, per l’avvocatura è andato anche più in là, sopprimendo le tariffe sia minime sia massime, mentre la Corte di giustizia nelle diverse decisioni emanate al riguardo aveva sempre attestato la conformità della disciplina italiana a quella europea. Ha reso lecita la conclusione di patti in cui professionista e cliente si dividono i rischi della perdita della causa, ha incluso una maggior trasparenza nei rapporti economici tra le parti, ha modificato i codici deontologici, ha aperto il settore alla pubblicità.

Non si può pretendere di eliminare ogni mezzo di controllo sulla formazione, sul tirocinio, sull’esame di Stato, sull’ aggiornamento continuo – tutti strumenti che servono per controllare la preparazione, l’affidabilità e l’esperienza del professionista – quando la professione tocca interessi socialmente così rilevanti come lo sono la tutela della salute o la difesa in un procedimento giudiziario.

Se vengono a mancare questi baluardi che costituiscono un metodo di qualificazione e uno schermo molto netto di distinzione tra l’esercizio di una attività lavorativa indipendente qualsiasi e l’attività concernente le professioni “protette” , non vi sarebbe più ragione di impedire all’avvocato di esercitare un’attività d’impresa, di accollarsi compiti di natura sociale (come tutte le forme di collaborazione nell’amministrazione della giustizia oggi messe in pratica spontaneamente ), di addossare agli Ordini professionali compiti di natura pubblicistica.

In altri termini, non si può contemporaneamente mantenere un impianto normativo che distingue professionisti e loro Ordini da imprenditori e loro associazioni da un lato, e dall’altro trattare i professionisti come imprenditori.

Si calcoli che l’Ocse (ma anche la Banca Mondiale e gli altri organismi che si occupano di monitorare i mercati) svolgono la loro pregevole attività di ricerca e di indirizzo con un’ottica limitata, squisitamente mercantile e senza alcuna considerazione degli altri interessi socialmente rilevanti che debbono essere contemperati con quelli del mercato e che sono tutelati dalle professioni intellettuali.

La seconda osservazione riguarda la situazione concreta del “mercato professionale” in Italia. Posso parlare del settore dell’avvocatura, che conosco meglio di altri. Il numero degli avvocati (circa 250mila) certamente non induce a credere che l’avvocatura sia in mano a un oligopolio. Il fatto che il 15% degli studi professionali realizzi il 65% del fatturato complessivo, la persistente crisi economica che ha ridotto gli introiti, l’assenza di ogni provvidenza di natura sociale, l’incertezza del futuro ha indotto molti avvocati ad aggregarsi in studi multifunzionali con competenze diversificate, a fare economia di costi, riducendo il personale e purtroppo anche gli acquisti librari, affidandosi esclusivamente alle informazioni e ai dati acquisibili gratuitamente da internet. Senza parlare delle miserevoli condizioni economiche imposte da banche e assicurazioni ai loro difensori, sicché è nato un problema grave di cui si dovranno far carico il Governo e il Parlamento, e cioè l’equo compenso per il lavoro prestato: anche l’attività indipendente, intellettuale e professionale ha diritto alla garanzia costituzionale riservata al lavoro.

Non si vede quali siano ancora le regole da sopprimere per estendere la concorrenza, ma se mai, si deve pensare a regole che rimedino agli effetti negativi che hanno prodotto le cosiddette “lenzuolate”.

Alcuni economisti, si sa, non hanno simpatia per le regole giuridiche, considerate come lacci e lacciuoli, l’ Autorità antitrust non ha simpatia per i codici deontologici, ritenendo che l’etica sia un ostacolo ai rapporti economici (!), la costituzione di società di tipo commerciale è considerata la panacea per promuovere ulteriori progressi della concorrenza, e non si considera che così facendo si inducono i professionisti ad adottare l’ottica mercantilista, li si spinge a diventare sempre più imprenditori, quindi a commerciare la difesa in giudizio, le cure della salute, la garanzia notarile della autenticità degli atti e così via. E allora, anziché seguire la Scuola di Chicago , si potrebbe cominciare studiare i preziosi contributi della Scuola di Yale, con Guido Calabresi in testa, e a bilanciare law & economics , e gli altri interessi che la società reclama senza ottenere risposte affidabili?

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©