Rapporti di lavoro

«Nessun pregiudizio anti-società ma la difesa dei diritti è prioritaria»

di Maria Carla De Cesari

Riavvolgiamo il filo della storia. Giovanni Maria Flick, vent'anni fa, mentre si discuteva di liberalizzazione delle professioni era Guardasigilli; nell'estate fu abolito il divieto di costituire società da parte dei professionisti. «Era un divieto, vergognoso, dovuto a ragioni razziali, perché gli ebrei - commenta Flick - non potessero esercitare le professioni dietro lo schermo societario». Subito dopo fu predisposto un regolamento per disciplinare l'esercizio collettivo, bocciato dal Consiglio di Stato per questioni formali. Poi venne il disegno di legge di riforma delle professioni.

Presidente Flick, con la disciplina sulle società tra avvocati si è chiuso un cerchio?

Non so se si è chiuso un cerchio. Non è la conclusione del processo avviato allora, ma piuttosto è l’apertura di una nuova fase: non si tratta infatti di offrire ai professionisti degli strumenti per organizzarsi al meglio nell’esercizio dell’attività in forma associata, quanto di parificare le professioni ai servizi per l’impresa in termini di concorrenza. Tanto è vero che la legge è frutto del dibattito all’interno delle commissioni Industria. È significativo che la regolamentazione sulle società tra avvocati non derivi dalla dialettica delle commissioni che si occupano di diritti.

Se si è usciti dall’alveo naturale del confronto non è perché gli Ordini hanno fatto, per tanti anni, ostruzionismo?

La responsabilità è da distribuire fra le varie parti. Non condivido l’atteggiamento di chi, invece di discutere di principi, sottilizza su tecnicismi, del tipo: «manca la disciplina in caso di dissesto», oppure «non è chiara la distinzione fiscale tra reddito professionale e reddito d’impresa», oppure «mancano le sanzioni disciplinari per le società». Si tratta di questioni importanti e di lacune che possono essere risolte con interventi puntuali, ferma restando la difficoltà di sovrapporre profili tipicamente personali e profili societari, come dimostra la non felice esperienza della 231.

Qual è il punto?

Il problema è trasformare la professione di avvocato in un servizio come tanti altri, al posto di un’attività che riguarda i diritti, la cui tutela richiede il riconoscimento di specifiche competenze. La difesa dei diritti è il punto centrale. Vorrei dirlo con uno slogan: non si può concedere che sia il denaro a difendere il diritto, anziché il diritto a difendere il denaro, quando merita. Se ci rassegnassimo al primo schema, chi non ha soldi dovrà accontentarsi di soluzioni negoziali, dove il più forte avrà ragione. Per fortuna, non sono passate altre richieste dell’Antitrust, come il patto di quota lite. Anche la Corte di giustizia Ue, qualche anno fa, nel giudicare la normativa olandese per le società professionali ha ammesso che bisogna evitare matrimoni forzati tra un elefante e un topo, perché il primo schiaccerebbe l’altro.

La soluzione individuata funzionerà o sarà un matrimonio tra un elefante e un topo?

Si vedrà se ci saranno troppi elefanti. Intanto, sono state previste alcune valvole di sicurezza: i soci professionisti devono rappresentare almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, l’organo di gestione non può ospitare estranei alla compagine sociale e deve essere composto in maggioranza da avvocati; per questo è stato rimossa l’incompatibilità prevista nell’ordinamento forense che avrebbe avuto esiti paradossali. Soprattutto, si conferma che la prestazione professionale è fatta dal singolo professionista. Certo, ci sono problemi aperti.

Quali?

Per esempio, non sono stati previsti requisiti di qualità, di onorabilità, di provenienza del denaro per il socio di capitale. Il timore è che in qualche realtà territoriale la società possa diventare uno strumento “vicino” non solo all’impresa ma anche all’impresa criminale.

Ci sono anche altri filtri. Per esempio, l’antiriciclaggio.

Sì, ma funzioneranno? Certo, non si può bloccare tutto per timore o per partito preso, ma la difesa dei diritti deve essere al centro. Non ci si può affidare in toto alla globalizzazione che diventa un valore in sé invece di uno strumento; altrimenti una mattina, sull’altare dei falsi dei - al posto del biblico vitello d’oro - troveremo un algoritmo, che dirà come dovremo comportarci.

Nel suo disegno di legge sulle professioni gli Ordini avrebbero dovuto rispondere agli interessi generali. Sono riusciti in questo mandato?

Sono un avvocato, non voglio esprimere giudizi che potrebbero valere per molte realtà, per esempio talvolta anche per il Consiglio superiore della magistratura. Non condivido l’idea di battaglie su tecnicismi, che sfociano nel corporativo, al posto delle battaglie sui principi: sono il miglior pretesto da offrire all’avversario. L’avvocatura è presente in modo esplicito nella Costituzione, il contenuto dell’articolo 24 è sempre stato inteso come difesa tecnica, che richiede competenze e formazione specifiche e riconosciute. Nella realtà può accadere che quando serve ci si appelli alla funzione pubblica, in altri casi si ponga l’accento sulla professionalità privata, ma questo rischia di generare ambiguità e di diventare strumentale.

Come giudica la possibilità che ai professionisti iscritti agli Ordini vengano affidate funzioni pubblicistiche?

Mi preoccupa. I ruoli vanno distinti altrimenti corriamo il rischio che, in nome dell’efficienza, si attraggano nell’orbita pubblica e funzionale i diritti dell’individuo.

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