Rapporti di lavoro

La formazione va liberata dal groviglio delle regole

di Alberto Orioli

I dati, come sempre, sono più duri della realtà virtuale delle polemiche politiche. II test di convenienza a livello contributivo dimostra chiaramente che il bonus della decontribuzione non cannibalizza l'incentivo legato ai contratti di apprendistato come invece denuncia da tempo chi in Parlamento è contrario al rifinanziamento delle misure per l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. È troppo banale ridurre l'analisi a una competition “monetaria” tra incentivi: l'apprendistato resta di gran lunga lo strumento di maggiore convenienza economica, anche rispetto alla decontribuzione più generosa. Eppure non decolla. Non decolla anche se il 2016 ha registrato un trend positivo: 267mila contratti attivati, in crescita rispetto ai 206mila del 2015, ma comunque pochi rispetto al totale di oltre 9,4 milioni di attivazioni complessive.

È più utile cercare di capire perché quel tipo di contratto a formula mista, che in altre realtà europee è lo strumento principe per l’ingresso al lavoro dei giovani, da noi non funziona. E il tema diventa inevitabilmente la formazione: per anni è stata ostaggio degli abbagli federalisti dopo che la Costituzione ha affidato alle Regioni la competenza formale sul tema. La corsa alla specificità territoriale ha ridotto in coriandoli normativi un tema che resta di caratura nazionale perché nazionale (se non addirittura europeo) è il raggio d’azione del mercato del lavoro. I disciplinari regionali della formazione per apprendisti sono stati poi oggetto di contese tra centro e periferia, veri sabotaggi istituzionali solo dovuti all’opposta appartenenza politica. Le imprese vivono ogni situazione di incertezza normativa come un vincolo fastidioso e come potenziale diseconomia: serve un indirizzo chiaro e una semplificazione nell’attuare le direttive. Soprattutto è necessario non caricare l’impresa di compiti che non è in grado di svolgere o che percepisce come estranei alla sua missione. La formazione d’aula o teorica è una di queste. In azienda è giusta la formazione per affiancamento, quella che si crea mentre si svolge il lavoro, ogni giorno meglio, ogni giorno arricchito di contenuti che solo l’esperienza può assicurare.

L’intreccio tra obblighi legislativi e dettati contrattuali crea una ulteriore complessità applicativa. Basta riprodurre l’elenco degli adempimenti anche solo per titoli: retribuzione, sotto-inquadramento, tutore o referente aziendale, finanziamento e riconoscimento dei percorsi formativi, registrazione della formazione e della qualificazione professionale, prolungamento del periodo di apprendistato in caso di malattia o infortunio, forme e modalità di conferma in servizio.

È maturo il tempo per considerare la formazione come elemento centrale di un nuovo sistema duale scuola-lavoro che sia il cardine delle nuove modalità di accesso al mercato. Al termine di questo percorso riformista e culturale anche l’esigenza di incentivare tout court il lavoro dei giovani attraverso la decontribuzione risulterà superabile. Ma soltanto allora. Fino a quando resterà la babele normativa e di competenze la via dello sconto fiscale per chi assume resta la strada maestra per ridare slancio all’occupazione. Semmai è maturo il tempo per ripensare una sola e unica modalità di avvio al lavoro concentrando in modo massiccio le risorse e semplificando le procedure.

La formazione non può restare un argomento parcellizzato negli attori, nelle competenze istituzionali, negli esiti. Deve diventare uno dei capisaldi di una nuova e più moderna idea di Stato sociale, perché ne è parte integrante ed è l’unico “patrimonio” in grado di agevolare l’incontro tra chi cerca lavoro e chi lo offre, tanto più oggi quando è impossibile ragionare su quali saranno davvero i lavori del nostro domani, condizionati come saranno dall’avvento dell’automazione, dell’intelligenza artificiale, della smaterializzazione e dell’abbattimento dei confini geografici.

Lo sforzo fatto con il protocollo sulla formazione del Piano industria 4.0 è solo il primo esempio virtuoso di ciò che dovrebbe diventare un esteso programma su scala più generale e pervasiva puntando, ad esempio, sulla diffusione degli Istituti tecnici superiori superando lo scetticismo dell’Accademia e l’ideologia di chi ostacola ogni sperimentazione perché la scuola non deve formare lavoratori ma cittadini, dimenticando che la realizzazione tramite il lavoro è la prima, vera forma di appartenenza alla comunità e alla cittadinanza.

Altrettanto importante dovrebbe diventare una nuova modalità certa e semplice per la certificazione delle competenze magari da agganciare alle declaratorie delle qualifiche previste dai contratti.

Al centro della nuova stagione di riformismo non può non esserci proprio la persona, nell’arco di tutta la sua vita. Il modello lifelong learning, la condizione di apprendimento permanente, ormai è ineludibile: serve un continuo adattamento delle competenze che interessi il cittadino da lavoratore, da disoccupato, da studente, da ex lavoratore.

La frequenza dei cambi di lavoro è ormai impressionante, gli obblighi di “sopravvivenza culturale” imposti dalle ondate tecnologiche sono sempre più rapidi e profondi, forse è arrivato il tempo di immaginare che alla parola welfare non corrisponda più solo l’idea delle pensioni ma quella della creazione delle competenze. Ormai è chiaro: è l’unica vera ricchezza sia per i singoli sia per una nazione.

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