Rapporti di lavoro

L’equo compenso per gli Ordini basato sui parametri

di Giuliano Fonderico

La norma sull’equo compenso - in vigore da ieri - non era presente nel decreto legge 148/2017, convertito con la legge 172. Al primo passaggio al Senato del Ddl, era stata inizialmente introdotta solo per gli avvocati.

Il tema è stato in ogni caso dibattuto per tutto l’iter di approvazione. Al Senato c’erano emendamenti per costruire due regimi, distinti per professioni regolamentate e non. Alla Camera, gli emendamenti avevano proposto estensioni puntuali, ad esempio per i mediatori e per gli autotrasportatori.

Il testo approvato ha mantenuto l’idea del doppio binario emersa dal dibattito parlamentare e per certi versi inevitabile, se si tiene conto della diversità di discipline applicabili. Da un lato, le norme si applicano agli avvocati, qualunque sia la forma in cui esercitano la professione: individuale, associazione professionale o società di professionisti. Le attività coperte dal diritto all’equo compenso sono solo quelle riservate alla professione forense, vale a dire la difesa nei giudizi e negli arbitrati rituali, la consulenza stragiudiziale quando connessa all’attività giurisdizionale. Dall’altro lato, il testo finale ha esteso la disciplina, «per quanto compatibile» ai professionisti considerati dalla legge 81/2017, il cosiddetto Jobs act del lavoro autonomo. In realtà, questa legge rinvia a sua volta al lavoro autonomo del Codice civile, nozione molto ampia che non ha necessariamente contenuto intellettuale. Essa richiede solo la presenza di un contratto d’opera o di servizio da svolgere con lavoro proprio e senza vincoli di subordinazione. Rimane così il dubbio se il rinvio includa tutti i prestatori d’opera – nel caso, anche quelli che applicano contratti “tipici” (ad esempio i mediatori) – o solo quelli intellettuali, iscritti o meno in ordini e collegi. Il Jobs act, inoltre, tiene fuori i “piccoli imprenditori” che, sempre secondo la nozione civilistica, alla prestazione del lavoro proprio aggiungono un’organizzazione di mezzi. Anche qui occorrerà capire se l’esclusione rilevi per l’equo compenso.

La tutela dell’equo compenso e contro le clausole vessatorie si applica nei confronti di committenti “forti”, banche, assicurazioni, imprese non ricomprese nel concetto comunitario di Pmi e, da ultimo, la pubblica ammnistrazione.

L’estensione della tutela dell’equo compenso a tutte le professioni, apparentemente lineare, cela diversità significative che vanno al di là della clausola di compatibilità inserita dal legislatore. Gli avvocati, in primo luogo, beneficiano dell’equo compenso anche quando operano in forme organizzate, a prescindere che gli si possa attribuire o meno la qualità di impresa. Per le altre professioni, applicando l’esclusione prevista dal Jobs act l’esercizio in forme imprenditoriali dovrebbe essere sufficiente a negare il diritto. Le differenze più significative riguardano però il contenuto della tutela. Gli avvocati, per valutare l’equità del compenso, potranno appellarsi ai “parametri” individuati in base alla loro legge professionale, che normalmente dovrebbero essere applicabili solo in mancanza di accordo tra le parti e nelle liquidazioni delle spese di giudizio. Gli altri professionisti dovranno invece fare riferimento ai “parametri” adottati in applicazione del Dl 1/2012 di liberalizzazione, lo stesso che ha abolito le tariffe professionali. Al momento, questo decreto copre solo professioni in vario modo regolamentate, ad esempio commercialisti, notai e professionisti tecnici. Occorrerà dunque integrarlo con altri parametri, con tutta la difficoltà di farlo per il mondo eterogeneo delle professioni non regolamentate. Per queste, si dovrà forse ricorrere a un qualche criterio residuale o all’applicazione analogica. Il rischio, in definitiva, è che per alcuni professionisti il compenso sia più “equo” che per altri.

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