Rapporti di lavoro

Garanzie minime contro la vulnerabilità

di María Luz Rodríguez

L’Unione europea ha elaborato già da un po’ la cosiddetta Agenda per l’economia collaborativa, consacrando con questa locuzione, «economia collaborativa», il fenomeno che consiste nel collocare beni e servizi sul mercato attraverso piattaforme telematiche. Credo, in tutta sincerità, che questa denominazione possa indurre a un errore di valutazione sul significato che rivestono le suddette piattaforme. Non dubito che in alcune di esse si possano trovare effettivamente tracce di una collaborazione disinteressata e altruista fra cittadini, ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di imprese che hanno la forma di una piattaforma telematica e la cui attività, senza dubbio molto redditizia, consiste nel collegare la domanda e l’offerta di un bene o un servizio attraverso la propria piattaforma.

La seconda cosa su cui richiamare l’attenzione si riferisce a quello che è successo, in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, nel momento in cui la relazione esistente tra i «prestatori di servizi» che stipulano un contratto con le piattaforme telematiche e le stesse piattaforme è stata oggetto di cause giudiziarie. Nel caso di Uber ci sono già state due sentenze, nel Regno Unito, in cui si afferma che i conducenti di questa piattaforma sono lavoratori e quindi hanno diritto a vedersi riconosciuti gli stessi diritti del resto dei lavoratori di quel Paese. Al contrario, nel caso di Deliveroo ci sono stati due pronunciamenti, nel Regno Unito e in Francia, che affermano che i rider non sono lavoratori ma freelance. Qualcosa di simile è successo in Italia riguardo ai rider di Foodora, che un tribunale di Torino ha giudicato lavoratori autonomi, e negli Stati Uniti, dove un tribunale della Pennsylvania ha considerato alla stessa stregua i conducenti di UberBlack.

Non intendo soffermarmi sugli indizi che hanno spinto questi giudici a dichiarare l’esistenza o inesistenza di un rapporto lavorativo fra i «prestatori di servizi» e le piattaforme corrispondenti. È un tema troppo giuridico, e probabilmente tedioso. Ma mi serve per mettere in rilievo un’altra considerazione su questo tema. Non tutte le piattaforme sono uguali, e nemmeno agiscono nello stesso modo. Che ci siano pronunciamenti disparati sull’esistenza o inesistenza di un contratto di lavoro nelle piattaforme telematiche è dimostrazione sufficiente del fatto che la forma del «lavorare» per alcune non coincide necessariamente con la forma del «lavorare» in altre (e la scelta delle proposizioni non è casuale). Da qui consegue che gli operatori giuridici chiamati ad analizzare il tipo di relazione esistente fra la piattaforma e i prestatori dei servizi che la stessa offre al pubblico devono basarsi sui fatti che si producono in ognuna delle piattaforme, e non su un preteso giudizio universale su come si «lavora» in esse.

Sono questi gli elementi che utilizzano da sempre i giuslavoristi per affermare o negare l’esistenza di un contratto di lavoro, e qui mi ricollego direttamente al diritto del lavoro e alla terza considerazione. Nel diritto del lavoro non si analizzano i nomi dei contratti né l’intenzione dei contraenti e nemmeno il sistema previdenziale in cui sono registrati. Quello che importa nel diritto del lavoro è la realtà dei fatti. Non fa differenza, quindi, se le parti si definiscono o si considerano lavoratori o freelance, perché saranno quello che deriva dai fatti racchiusi all’interno del loro rapporto, vale a dire la forma e il modo in cui una delle parti, concretamente, presta i suoi servizi per l’altra. Per dirla ancora meglio, quello che saranno dipenderà dalla misura in cui tale forma o modo corrisponde a ciò che noi giuslavoristi denominiamo subordinazione e dipendenza.

Non abbiate timore, non è mia intenzione mettermi a spiegare l’essenza giuridica di questi due concetti. Quello che voglio fare è sottolineare che su di essi, da tempo, è stata costruita una frontiera. Stare da un lato della frontiera (perché i fatti confermano che esistono subordinazione e dipendenza nel modo in cui una persona presta un servizio per un’altra) significa essere lavoratori; stare dall’altro lato della frontiera (perché i fatti confermano che non esiste subordinazione o non esiste dipendenza) significa essere autonomi, o, per usare una terminologia più moderna, freelance. I diritti che possiedono le persone prestatrici di lavoro da un lato e dall’altro della frontiera sono differenti: e sono differenti anche i costi economici per il datore di lavoro di una o dell’altra figura; e sono differenti anche, molto differenti, le prestazioni di previdenza sociale. Voglio sottolineare che questa frontiera è escludente fin dalle sue origini, perché non includeva (e ancora non include) nella categoria dei «lavoratori» quelli che non ricevono remunerazione in cambio dei servizi prestati, cosa che fin dal principio ha escluso milioni di donne che «lavoravano», e «lavorano» ancora, occupandosi della propria famiglia e della propria casa senza ricevere in cambio nessun compenso (lavoro riproduttivo o lavoro di cura, per usare la terminologia femminista).

Oggi è di nuovo questa la frontiera contesa quando si analizza il lavoro nelle piattaforme digitali. E qui introduco la mia quarta considerazione. In questo dibattito a volte si ha l’impressione di dover decidere fra stare da un lato della frontiera, dove regnano comfort e sicurezza, e stare dall’altro, dove regnano assenza di tutele e insicurezza. Non è del tutto vero: il lato del lavoro salariato è diventato molto diverso dopo la crisi economica e le riforme del lavoro che sono seguite; basta guardare i dati su temporaneità e salari per rendersi conto che l’area del lavoro ha smesso di essere una zona di comfort e sicurezza per molti lavoratori. Lo stesso succede dall’altro lato della frontiera, dove convivono autonomi che sono tre volte più a rischio povertà dei lavoratori e freelance che hanno livelli di entrate e di autonomia nella forma in cui prestano i loro servizi per nulla disprezzabili.

In conclusione, considerando che da entrambi i lati della frontiera oggi possiamo trovare situazioni di vulnerabilità assimilabili, a mio parere sarebbe più intelligente (e probabilmente più giusto) stabilire un livello minimo di diritti, procedimenti e garanzie che equilibrino o compensino questa situazione di vulnerabilità delle persone che lavorano, sia che lo facciano in quanto lavoratori sia che lo facciano in quanto freelance.

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