Rapporti di lavoro

Statuto del lavoro autonomo, la riforma dimentica la rivoluzione digitale

di Giampiero Falasca

Il Jobs act del lavoro autonomo ha il merito di aver messo al centro dell’agenda politica il tema delle tutele per il popolo delle partite Iva, ma sconta il grande limite di aver creato un pacchetto di misure largamente inadeguate rispetto ai fabbisogni presenti e futuri di questa platea di lavoratori.

Il merito di aver affrontato la questione delle tutele non va taciuto: il popolo delle partite Iva molto spesso viene utilizzato e strumentalizzato per battaglie propagandistiche ed elettorali, ma raramente è oggetto di attenzioni concrete e reali.

Il fatto che il Parlamento abbia discusso a lungo su un pacchetto di misure volte a sostenere l’attività dei lavoratori autonomi è, quindi, una novità significativa, che fa salire di livello l’intero dibattito sul tema.

Questo merito è bilanciato da un vizio di fondo abbastanza grave della legge 81/2017: il legislatore non è stato in grado di dare risposte adeguate ai fabbisogni attuali dei lavoratori autonomi, e non ha neanche tentato di dare risposte alla grande trasformazione del lavoro imposta dalla rivoluzione digitale.

Se ci soffermiamo sui fabbisogni più immediati, risulta abbastanza evidente che le misure contenute nel Jobs act degli autonomi possano produrre benefici molto limitati sull’attività lavorativa dei lavoratori autonomi.

Nessuna delle misure merita di essere bocciata, ma si tratta di interventi marginali o, comunque, troppo timidi per incidere veramente.

Non è pensabile che l’apertura di uno sportello presso il Centro per l’impiego possa essere una risposta concreta alla domanda di servizi per il lavoro autonomo, in un Paese nel quale l’organizzazione complessiva di queste strutture, nonostante una legislazione molto avanzata, non produce risultati accettabili.

E manca una risposta efficace alle questioni più urgenti che deve affrontare chi ha una partita Iva: un fisco nemico di chi lavora in chiaro e amico – di fatto - di chi si nasconde nelle zone grigie, l’assenza di incentivi efficaci all’innovazione tecnologica e all’investimento sul capitale umano, un’infrastruttura normativa e burocratica profondamente ostile verso di chi agisce in proprio.

Ma la carenza del provvedimento è ancora più evidente se si alza lo sguardo verso la grande trasformazione che sta attraversando il lavoro.

Il caso Foodora è solo una delle tante vicende che dimostrano come le categorie giuridiche usate tradizionalmente per “catalogare” il lavoro – subordinato, autonomo, parasubordinato – sono ormai inadeguate rispetto ai cambiamenti profondi che la rivoluzione digitale sta determinando nel sistema economico e sociale.

Siamo ancora dentro questo cambiamento e, quindi, la ricerca di soluzioni definitive o affrettate sarebbe inutile e intempestiva. Ma questa attesa non può essere un alibi per far finta che nulla stia accadendo: nel momento in cui tendono a scomparire i datori di lavoro (sempre più rimpiazzati da piattaforme digitali che intermediano il lavoro), e anche le attività di contenuto più esiguo faticano a trovare posto dentro lo schema classico della subordinazione, bisogna creare tutele nuove che si estendono a tutto il lavoro “economicamente dipendente”, ripensando le categorie tradizionali e adeguandole ai nuovi lavori.

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