Rapporti di lavoro

Licenziamenti più costosi nelle tutele crescenti

di Alberto Bosco

L'entrata in vigore delle nuove disposizioni contenute nel decreto legge 12 luglio 2018, n. 87 (cd. “decreto dignità”), non ha interessato solo i contratti a tempo determinato (sui quali si è certamente incentrata l'attenzione degli addetti ai lavori) ma anche le conseguenze economiche, ossia l'ammontare dell'indennità spettante, in caso di recesso illegittimo per quanto concerne unicamente i lavoratori soggetti al contratto a tutele crescenti, ossia quelli ai quali si applicano le disposizioni contenute nel decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
L'occasione è quindi utile per un riepilogo delle varie situazioni possibili e dei regimi di tutela collegati a ciascuna di esse.

Campo di applicazione
Iniziando dunque con l'individuazione dei lavoratori interessati, il contratto a tutele crescenti (e quindi le norme di cui al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23) si applicano nelle seguenti ipotesi di licenziamento illegittimo:
a) lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo (ossia dal 7 marzo 2015);
b) conversione, avvenuta a partire dal 7 marzo 2015, di un contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato;
c) datore di lavoro che, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo l'entrata in vigore del medesimo decreto (7 marzo 2015), integri il requisito occupazionale di cui all'articolo 18, co. 8 e 9, della legge 20 maggio 1970, n. 300, anche ove si tratti di lavoratori assunti precedentemente a tale data (il caso più comune è quello della PMI che, ferma a 15 dipendenti, dal 7 marzo 2015 in poi assume il 16° lavoratore subordinato, il quale ovviamente ricade nelle tutele crescenti, cosa che poi comporta l'estensione del regime di cui al D.Lgs. n. 23/2015 anche a tutti i colleghi già presenti in azienda).

Datori “grandi” e “piccoli”
Il regime di tutela dipende dalle dimensioni dell'organico del datore di lavoro: la norma di riferimento per il conteggio della cd. forza lavoro è, ancor oggi, l'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Ebbene, viene considerato “grande” il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che:
a) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di 15 lavoratori (più di 5 se agricolo);
b) nell'ambito dello stesso comune occupa più di 15 dipendenti (e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di 5 dipendenti), anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti;
c) in ogni caso, il datore che occupa più di 60 dipendenti.

Reintegrazione nel posto
A tale proposito vanno anzitutto menzionate le ipotesi di licenziamento orale, nullo, discriminatorio, o legato alla disabilità fisica o psichica del lavoratore (anche ai sensi degli artt. 4, co. 4, e 10, co. 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68), nelle quali – a prescindere dal numero di dipendenti – opera sempre e comunque la reintegrazione del dipendente nel posto, cui si accompagna un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, in misura comunque non inferiore a 5 mensilità (più contributi), e con l'ulteriore – assai dispendiosa per il datore – possibilità che il dipendente chieda l'indennità sostitutiva della reintegrazione, stabilita in “cifra fissa” in 15 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
La nuova disciplina, che – nella generalità delle ipotesi – esclude la reintegrazione ove si tratti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la ammette invece – all'articolo 3, co. 1 – esclusivamente se si tratta di datori di maggiori dimensioni e solo nelle ipotesi di giustificato motivo soggettivo o giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del recesso: in tal caso, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore alla reintegrazione nel posto e al pagamento di un'indennità risarcitoria la cui misura non può essere superiore a 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (più versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del recesso fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza sanzioni per omissione contributiva). Come nel caso di licenziamento discriminatorio ecc., al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all'articolo 2, co. 3, ossia quella di chiedere il pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegrazione.
In tutte le altre ipotesi, e con marcata evidenza ove si tratti di datori di lavoro di piccole dimensioni, la reintegrazione nel posto non può mai aver luogo.

Nuove indennità per i datori “grandi”
Venendo alle modifiche, l'articolo 3, co. 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, dispone dunque che, salvo quanto disposto dal co. 2 (licenziamento disciplinare cui sia dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato, con reintegrazione nel posto), nei casi in cui si accerta che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo ovvero per giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento – non si fa quindi luogo alla reintegrazione – e condanna il datore al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale.
La modifica introdotta dal cd. decreto dignità riguarda l'importo dell'indennità spettante al lavoratore, che – fermo il criterio di quantificazione “generale” in 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio – con decorrenza dal 14 luglio 2018 ha elevato del 50%:
a) l'importo minimo, che passa da 4 a 6 mensilità;
b ) l'importo massimo, che sale da 24 a 36 mensilità.
La nuova situazione, che per comodità del lettore include gli importi connessi all'offerta di conciliazione che il datore di lavoro è eventualmente libero di offrire al dipendente, è quella di cui alla tabella allegata.

Nuove indennità per i datori “piccoli”
Ancora con riguardo ai lavoratori soggetti al contratto a tutele crescenti, l'articolo 9, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015, dispone che, ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, co. 8 e 9, della legge n. 300/1970, non si applica l'articolo 3, co. 2 (ossia non spetta mai la reintegrazione in caso di licenziamento disciplinare), e l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti:
a) dall'articolo 3, co 1 (indennità da licenziamento illegittimo);
b) dall'articolo 4, co 1 (risarcimento per le violazioni “formali o procedurali”, in particolare: omessa indicazione della motivazione del recesso o violazione delle norme relative al procedimento disciplinare); e
c) dall'articolo 6, co. 1 (offerta di conciliazione);
è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di 6 mensilità.
Tuttavia, proprio con riferimento agli importi dell'indennità spettante al lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato, abbiamo ricordato come – dal 14 luglio 2018, in base a quanto previsto dal cd. decreto dignità – le parole «non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità» sono sostituite dalle seguenti: «non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità».
Dal momento che, nelle PMI, in base a quanto previsto dall'art. 9, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015, l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti – per quanto qui interessa – dall'articolo 3, co 1 (indennità da licenziamento illegittimo) è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di 6 mensilità, per effetto del D.L. n. 87/2018 aumenta del 50%, passando da un minimo di 2 a un minimo di 3 mensilità l'ammontare spettante al dipendente, sempre con riguardo all'ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR.
Anche in questo caso, si veda la tabella allegata che, per completezza, include anche gli importi relativi all'eventuale offerta di conciliazione (questi ultimi, peraltro, non sono variati rispetto a prima).

Licenziamento collettivo
Infine, qualche novità merita di essere segnalata anche per quanto concerne il licenziamento collettivo dei lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti. Per essi, infatti, l'articolo 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, dispone che “in caso di licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, intimato senza l'osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all'articolo 2 del presente decreto. In caso di violazione delle procedure richiamate all'articolo 4, co. 12, o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, co. 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all'articolo 3, co. 1” (ovviamente del medesimo D.Lgs. n. 23/2015.
Il regime di cui all'articolo 3, co. 1, era quello che, sino a pochi giorni orsono, escluso il diritto alla reintegrazione nel posto, risarciva il lavoratore con un'indennità di importo pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
Tuttavia, in base alle modifiche introdotte dal decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, le parole «non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità» sono state sostituite dalle seguenti: «non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità». Ne deriva, quindi, che l'importo minimo del risarcimento (identico per i primi 3 anni di anzianità di servizio) sale a 6 mensilità e quello massimo, dopo 18 anni di servizio (e oltre), si attesta sulla ragguardevole somma di 36 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Merita conclusivamente di osservare come le nuove misure, elevate sino a 36 mensilità, non appaiono congruenti con quelle di cui all'articolo 18 della legge n. 300/1970 (12 – 24 per casi analoghi) e come le notevoli “restrizioni” ai contratti a termine pongano il datore di lavoro di fronte a scelte sempre più complesse, il che probabilmente non aiuta le nostre imprese.

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