Rapporti di lavoro

Così l’incarico internazionale mette il turbo alla carriera

di Luca Orlando

«I soldi contano, ma una decisione del genere si prende in funzione della crescita: il percorso estero è visto come un acceleratore di carriera». Che nel caso di Giuseppe Sceusi, “espatriato” in Giappone nel lontano 1986 e ora amministratore delegato di Marposs, ha certamente funzionato. La multinazionale emiliana dei sistemi di misura, che vanta decine di filiali e siti produttivi in tutto il mondo (oltre 2mila addetti sono oltreconfine) è uno dei tanti esempi di aziende che nel tempo si sono strutturate per gestire questo tema. «Oggi abbiamo una trentina di “espatriati” - spiega Sceusi - e per ciascuno di loro costruiamo dei pacchetti ad-hoc, con il nostro ufficio del personale».

Per le aziende italiane non si tratta affatto di un caso isolato o episodico, piuttosto parte di un trend che diventa strutturale. Le partecipate estere di aziende italiane sono infatti quasi 36mila, sviluppano 524 miliardi di euro di ricavi e danno lavoro globalmente a 1,6 milioni di persone: se anche solo uno su 100 fosse di provenienza italiana avremmo comunque una platea robusta, che coinvolge non solo i “big” dell’energia o delle infrastrutture ma anche numerose Pmi. «Il percorso è spesso agli inizi - spiega Andrea Benigni, ad di Eca, società che opera nella gestione degli espatriati - ma anche qui osserviamo un’evoluzione e una maggiore attenzione per questi aspetti, anche perché il corretto sviluppo estero dell’attività sempre più spesso diventa fattore critico di successo».

Come si comportano le aziende? Il sondaggio effettuato dalla società tra i clienti su oltre 12mila soggetti (il 3 ottobre la presentazione formale) evidenzia una prevalenza di trasferte, in un terzo dei casi si tratta invece di contratti esteri temporanei (distacchi), per l’11% di assunzioni dirette presso la sede estera. Quota residuale ma vista in progresso. «La “localizzazione” dell’espatriato è un fenomeno in crescita - aggiunge Benigni - agevolato anche dalla disponibilità al trasferimento delle giovani generazioni, manager di 35 anni che rispetto al passato hanno una più elevata propensione alla mobilità internazionale».

Convinti dalle opportunità di carriera ma anche da incentivi economici. Nel 61% dei casi le imprese inseriscono un “premio estero”, che può valere fino al 10-15% della retribuzione di partenza. A questo si aggiunge (anche qui nel 61% dei casi) una indennità di disagio variabile (da zero al 40-50% della retribuzione), che tiene conto delle difficoltà e dei problemi del paese target. Indennità sul costo della vita (80% dei casi) e una tantum iniziale per la sistemazione (65%) completano in genere l’offerta.

Un project manager che parte da una retribuzione netta di 33mila euro può così arrivare a ridosso di 50mila euro se la destinazione è New York oppure Londra, mentre per Cina e India il “disagio” fa lievitare gli importi, anche oltre i 60mila euro netti, a cui si aggiungono in media alloggio, auto, scuola per i figli e un paio di viaggi di rientro all’anno.

Nel caso di Marposs, che utilizza la formula del distacco di 3-5 anni, la valutazione è fatta sulla base del costo della vita, integrazione estremamente variabile, che può oscillare tra i mille e i tremila dollari al mese. «Quello che vediamo nella nostra esperienza - aggiunge l’ad Sceusi - è che mediamente lo stipendio “bolognese” viene messo da parte e l’integrazione, a cui aggiungiamo l’affitto della casa, basta per le spese locali. Il pacchetto economico è attrattivo ma chi va all’estero non lo fa per i soldi. Oltre all’arricchimento in termini di know-how personale c’è un guadagno in termini di carriera: se hai lavorato bene, quando rientri in Italia ottieni un livello superiore rispetto a quello di partenza».

I contratti locali sono l'opzione preferita per il gruppo bolognese Faac, 400 dipendenti in Italia e oltre 2.000 nel mondo. Una quindicina i manager italiani coinvolti in progetti di mobilità internazionale, dall'Australia al Brasile, da Dubai alla Russia, dall’Europa agli Usa. In media con contratti di 3 anni che nel tempo si stanno prolungando o diventano permanenti, in un processo che con il passare degli anni tende a strutturarsi, tenendo conto in particolare del mercato del lavoro del paese di destinazione. «Quanto costa sul mercato locale in Brasile un direttore di stabilimento o un sales manager? Noi partiamo da qui - spiega il direttore risorse umane Luca Bauckneht - per capire se convenga o meno spostare qualcuno dall'Italia. Può valere la pena di investire di più, naturalmente, ma deve esserci un chiaro vantaggio in termini di know-how apportato rispetto alle professionalità reperibili in loco».

Anche le Pmi, come detto, iniziano a sistematizzare questa attività e un esempio è Meccanotecnica Umbra, 80 milioni di ricavi nei componenti per pompe idrauliche, con la necessità di gestire sedi in Svezia, Usa, Messico, Brasile,India e Cina. «Nel tempo abbiamo creato degli standard - spiega il direttore delle risorse umane Stefano Laurenti - per presentarci in negoziazione con parametri chiari, tenendo conto ad esempio della difficoltà del ruolo e del Paese. In media la retribuzione lievita del 40%, ma considerando alloggio, scuole e viaggi di rientro il costo per l’azienda più o meno raddoppia».

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