Rapporti di lavoro

La beffa della residenza per i lavoratori all’estero bloccati dalla pandemia

di Angelo Cremonese

Rischiano di avere un risvolto tributario molto penalizzante gli effetti del Covid-19 per i contribuenti che hanno un contratto di lavoro dipendente all’estero ma hanno mantenuto la propria residenza in Italia. La normativa tributaria prevede un particolare trattamento - regolato dall’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir - per i lavoratori dipendenti che prestano la propria opera all’estero, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto. Il reddito è determinato, infatti, sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con un Dm Lavoro (articolo 4, comma 1, del Dl 317/1987). In sostanza, le retribuzioni convenzionali devono essere prese come riferimento per la determinazione della base imponibile da sottoporre a tassazione, a prescindere da quanto effettivamente corrisposto al soggetto. Ulteriore condizione è aver soggiornato all’estero, per un periodo superiore a 183 giorni nell’anno.

Tenuto conto delle forti restrizioni agli spostamenti internazionali causate dalla pandemia, nel 2020 sono stati firmati per i lavoratori transfrontalieri accordi amichevoli tra Italia, Svizzera e Francia in base ai quali i giorni di lavoro svolti nello Stato di residenza per conto di un datore di lavoro situato nell’altro Stato contraente vengono considerati giorni di lavoro trascorsi nello Stato in cui la persona avrebbe lavorato in assenza delle misure restrittive. Queste disposizioni sono volte a evitare penalizzazioni che vadano ad influire sui mutamenti intervenuti in un mondo del lavoro che ha dovuto ricorrere allo smart working, per arginare i possibili effetti sanitari negativi del lavoro in presenza. In questo contesto appare difficile inquadrare la risposta a interpello 345/2021 delle Entrate (si veda Il Sole 24 Ore del 18 maggio) proposto su una questione che affronta il tema dei tanti, non transfrontalieri, costretti al lavoro da casa perché impossibilitati a viaggiare. Nello specifico si affronta il caso di un lavoratore residente fiscalmente in Italia e che normalmente svolge la sua attività lavorativa in Francia. Tale soggetto dal 23 febbraio 2020, a seguito delle misure restrittive imposte dagli Stati, si è trattenuto in Italia per poter lavorare in remote working. In tale ipotesi, che anche a parere dell’Agenzia rientra perfettamente nella casistica coperta dall’accordo amichevole tra l’Italia e la Francia, la risposta all’interpello preclude l’applicazione della determinazione del reddito sulla base delle tabelle convenzionali. Il motivo? La mancanza del requisito dei 183 giorni di permanenza all’estero del lavoratore. La lettura della risposta all’interpello suscita perplessità se si esamina la chiarezza della ratio con la quale gli Stati contraenti hanno deciso di intervenire e di siglare gli accordi sulla disciplina del lavoro a distanza. La soluzione prospettata sembra quindi in contrasto con lo spirito degli accordi siglati, rischia di generare confusione sulla corretta interpretazione della norma e potrebbe generare contenzioso.

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