Rapporti di lavoro

Se il lavoratore è inadempiente l’azienda può rivalersi

di Daniele Colombo

Quali sono le conseguenze in caso di violazione del patto di non concorrenza da parte del lavoratore? In che modo l'azienda può disincentivare la violazione del patto? Sono legittime le penali?

Iniziamo col dire che la violazione del patto di non concorrenza costituisce un inadempimento contrattuale che obbliga il lavoratore a risarcire il danno patito dal datore di lavoro. Se, durante la vigenza del patto, il datore di lavoro ha avuto contezza della violazione, può agire in via d’urgenza innanzi al tribunale del lavoro per inibire al lavoratore resosi inadempiente lo svolgimento dell'attività in concorrenza fino alla scadenza del patto.

Sono, altresì, valide le clausole penali che, predeterminando l’ammontare del risarcimento del danno in caso di violazione, vengono usualmente introdotte allo scopo di disincentivare il lavoratore dall’inadempimento. Un ulteriore strumento utile a scoraggiare il dipendente nel caso in cui si presenti l’occasione di violare il patto è l’introduzione di un obbligo che impone al lavoratore di comunicare tempestivamente al precedente datore di lavoro il nome della nuova impresa cui sarà eventualmente impiegato.

Il recesso unilaterale del datore

Ampiamente dibattuta in giurisprudenza è la validità della clausola apposta al patto di non concorrenza che consente al datore di lavoro di recedere unilateralmente. Tale tesi discenderebbe dall’interpretazione dell’articolo 2125 del Codice civile, alla luce degli articoli 4 e 35 della Costituzione, dai quali conseguirebbe un “diritto alla certezza”, che deve essere riconosciuto al lavoratore, a bilanciamento della “grave ed eccezionale limitazione alla libertà d’impiego delle energie lavorative” (Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 212 dell’8 gennaio 2013).

Il diritto di opzione

Un altro aspetto riguarda la validità del diritto di opzione, clausola con la quale il datore di lavoro si riserva, alla cessazione del rapporto di lavoro e a sua discrezione, la facoltà di aderire o meno al patto. La giurisprudenza si è interrogata se, in tal caso, il patto possa dirsi già perfezionato al momento in cui è stato stipulato, soprattutto nell’ipotesi in cui il datore di lavoro decida di non esercitare la facoltà contrattualmente prevista di adesione al patto di non concorrenza, liberando così il lavoratore dai divieti contenuti nel patto. Secondo una prima interpretazione, l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto. Scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta. In conclusione, qualora il datore di lavoro non eserciti il diritto entro il termine contrattualmente fissato, l’opzione viene meno con conseguente inefficacia del patto di non concorrenza; in tal caso, il lavoratore, liberato dal vincolo, non avrà diritto al compenso pattuito (Cassazione civile, sezione lavoro sentenza 25462 del 26 ottobre 2017).
A diversa conclusione è giunta, invece, la Cassazione più recente , secondo la quale il patto di non concorrenza sarebbe valido ed efficace sin dalla sottoscrizione e, pertanto, la decisione dell’azienda di esercitare il diritto di opzione, non avvalendosi del patto, costituirebbe una sorta di illegittimo “recesso unilaterale” anche se esercitato anni prima della cessazione del rapporto di lavoro ( Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza 23723 del 1° settembre 2021).

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