Rapporti di lavoro

Duecento grandi aziende in rete per non lasciare indietro nessuno

di Cristina Casadei

Nell’era della transizione digitale c’è sicuramente da colmare il gap delle competenze per non lasciare indietro nessuno. Si tratta però di un percorso da fare senza tralasciare tutto ciò che serve per una maggiore partecipazione di tutti, dalle donne ai disabili agli stranieri. A riportare l’attenzione sull’inclusione a 360° sono state le 200 grandi imprese (da Accenture a Zurich passando per Poste, Enel, Intesa) che hanno dato vita alla 4 Weeks 4 Inclusion, che si chiuderà la prossima settimana. «Solo un anno fa eravamo 25 aziende a iniziare questo percorso e ora siamo più di 200 a condividere un calendario di circa 200 eventi», racconta Luciano Sale, direttore human resources, organization & real estate di Tim, l’azienda capofila dell’iniziativa a cui hanno partecipato oltre 350mila persone. «A parte i numeri - ragiona Sale - credo che il risultato principale sia proprio lo spirito che anima 4 Weeks 4 Inclusion: fare rete tra aziende per promuovere i valori dell’inclusione, terreno su cui non si può, anzi non si deve essere competitivi ma solo alleati».

Percorsi su misura

Quando si parla di inclusione non esiste «una ricetta unica. Ogni azienda deve scegliere il suo percorso e ritagliarlo a misura sulla propria cultura organizzativa - interpreta Sale -. Tim ha intrapreso da zero nel 2009 il suo percorso verso la piena inclusione ed oggi è riconosciuta a livello internazionale come una delle migliori pratiche». Due i pilastri che guidano i programmi e cioè l’ascolto e la valorizzazione dell’unicità delle persone.Da una ricerca realizzata dall’Ipsos ad hoc per 4 Weeks 4 Inclusion sulle opinioni e gli atteggiamenti degli italiani sull’inclusione, su un campione di oltre 23mila persone, emerge che l’aspetto che preoccupa maggiormente è la disuguaglianza economica e la disparità di ricchezza, indicata da oltre la metà delle persone in Italia (56%) e nel mondo (60%). Nelle imprese la diffusione di programmi di corporate social responsability ha una diffusione che mostra molti spazi di crescita, dal momento che l’impegno su questo tema riguarda solo un’impresa su tre. La priorità su cui la Csr si sviluppa nella maggioranza delle imprese, però, è la sostenibilità ambientale (82%), seguita da welfare e wellbeing (63%), attenzione ai disabili (39%), parità di genere (37%), multiculturalità (29%) e tematiche LGBTQ (18%). «Questo tipo di approccio aziendale richiede un cambiamento culturale profondo del management. Infatti, applicare logiche di “Sostenibilità”, vuol dire avere l’ambizione di ridisegnare le attività aziendali affinché lascino un’impronta positiva sulla società e sull’ambiente», interpreta Sale.

Le sostenibilità a confronto

L’attenzione verso l’ambiente ha una sua precisa spiegazione secondo il manager: «Il tema ambientale è al centro delle attenzioni governative e mediatiche di tutto il mondo. È anche forse più “semplice” da affrontare e da comunicare: infatti può essere analizzato con metodo scientifico e gestito con iniziative che producono effetti misurabili. La sostenibilità sociale è invece una sfera più sfaccettata e complessa perché il benessere delle persone dipende da molteplici fattori: ci sono aspetti razionali e oggettivi come l’equa retribuzione, aspetti emotivi come la motivazione, il sentirsi inclusi, e aspetti etici come la non discriminazione, le pari opportunità. Ogni azienda deve fare un’analisi della sua specifica realtà e individuare gli interventi necessari al benessere e alla valorizzazione dei suoi dipendenti in un’ottica di lungo periodo». Nel caso specifico di Tim, nel piano industriale sono stati inseriti obiettivi pluriennali di incremento della motivazione, formazione e soddisfazione dei dipendenti.

Il caregiving è rosa

Sulle tematiche di genere, la stessa ricerca Ipsos evidenzia che nella distribuzione dei compiti di caregiving in famiglia la distanza tra lavoratrici e lavoratori è abissale: i compiti di cura sono ancora affare di donne principalmente per il 54% delle lavoratrici e per il 65% delle donne non occupate. Se andiamo a vedere le risposte degli uomini queste percentuali diventano rispettivamente il 17% e il 29%. Sulle questioni di genere sono stati fatti alcuni passi avanti, ma dalla ricerca Ipsos emerge che la pandemia ha aumentato anche la vulnerabilità economica delle donne, al punto che il 54% dice che il Covid ha ulteriormente peggiorato le loro condizioni.

Il ruolo dell’ascolto

Sale racconta che lavorare sulle tematiche di genere in Tim «è una priorità. Abbiamo iniziato con una fase di analisi e ascolto molto importante che ci ha consentito di capire che i fronti di azione sono sostanzialmente due. Il famoso soffitto di cristallo che spesso non consente alle donne di talento di emergere. In questo caso bisogna agire sia sulle quote manageriali sia sul rafforzamento delle competenze soft delle donne stesse». L’altro fronte è rappresentato da «cultura e linguaggi: una recente ricerca che abbiamo realizzato con l’università di Harvard - racconta il manager - ci ha fatto scoprire che la concentrazione principale dei “pregiudizi automatici”, che associano donna a famiglia e uomo a carriera, si ha proprio tra le donne alla base della piramide delle carriere». Venendo alle questioni più pratiche Tim di recente, tra le altre cose, ha raddoppiato il congedo di paternità obbligatoria: ai 10 giorni previsti dalla legge di bilancio, Tim ne aggiunge altri 10, per promuovere le pari opportunità in famiglia. Passando dal lavoro di cura alla busta paga, si entra in un’altra delle dimensioni dove è più forte il gender gap. «Ogni politica di pari opportunità che voglia essere effettiva non può non passare per l’equità retributiva - ammette Sale -. Secondo i dati forniti da Eurostat nel 2017, il gender pay gap complessivo è pari al 43,7% in Italia, contro una media europea del 39,6%. Di recente è stata approvata la legge sulla parità retributiva ma già da tempo in Tim avevamo assegnato ai nostri manager un obiettivo sfidante di riduzione sostanziale del gender pay gap».

L’equità degli strumenti

Nell’ampio territorio dell’inclusione viene ricompresa anche la disabilità su cui «bisogna cercare di superare un certo approccio pietistico - sostiene Sale -. Alla persona con disabilità va data la possibilità di esprimere il proprio talento, come a ogni altra persona. La parola chiave, in questo caso, è “equità”: dare ad ognuno gli strumenti opportuni per superare le barriere che possono essere non solo visibili, come quelle fisiche, ma anche culturali, procedurali, normative, di comunicazione. In secondo luogo bisogna costruire i progetti di inclusione insieme alle persone che ne saranno destinatarie. In Tim abbiamo una comunità di circa 50 persone sorde, molto diverse tra loro. Insieme abbiamo costruito il sistema di inclusione, individuando un set di soluzioni tecnologiche avanzate che possono essere combinate per soddisfare la singola esigenza. Direi che così abbiamo del tutto superato le barriere di comunicazione sordo-utente in azienda».

Sotto la lente

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