Rapporti di lavoro

Sul Fisco una riforma che delude sul lavoro e non intacca i privilegi

di Vincenzo Visco

La riforma dell’Irpef varata dal governo con l’appoggio della maggioranza parlamentare è stata fortemente criticata dalle forze sociali (sindacati e Confindustria) e suscita numerosi interrogativi.

Innanzitutto il governo ha presentato poche settimane fa una delega per la riforma del sistema fiscale che è all’esame del Parlamento in cui la revisione del sistema di tassazione personale sul reddito rappresenta il punto più importante e caratterizzante: l’intervento sull’Irpef è in coerenza, e come si raccorda, con la riforma più generale? Si tratta di una sua anticipazione? E come risponde alle esigenze più rilevanti a breve termine? Le risorse utilizzate per la riforma sono tutt’altro che trascurabili: 8 miliardi; siamo certi che il loro impiego sia quello ottimale?

Vediamo. Da un punto di vista strettamente tecnico la soluzione proposta è sicuramente apprezzabile perché razionalizza alquanto il meccanismo aliquote-detrazioni, avvicinando aliquote medie e marginali effettive, pur non risolvendo definitivamente il problema. Tuttavia logicamente l’intervento sulle aliquote sarebbe dovuto arrivare come conclusione di un processo più laborioso e complesso di ricomposizione delle base imponibile dell’imposta, adombrato nella delega, ma del tutto assente nella proposta di riforma, con il risultato di rendere meno attuale, e più problematico e incerto un eventuale intervento successivo.

Requiem per la “grande” riforma?

Il problema principale dell’Irpef attuale (e in verità dell’intero sistema tributario italiano) consiste nella sua frammentazione che si manifesta nella sua rinnovata cedolarizzazione, per cui diverse tipologie di reddito sono trattate diversamente, e contribuenti con lo stesso reddito subiscono prelievi differenti (anche in misura rilevante): Per esempio oggi gli agricoltori non pagano (quasi) imposte (e non solo quelle sul reddito); gran parte dei professionisti, artigiani e commercianti beneficia di un regime forfettario molto favorevole (che in altre occasioni ho definito un «privilegio esorbitante»); i lavoratori dipendenti che percepiscono il bonus 80-100 euro sono avvantaggiati rispetto agli altri, mentre, a parità di reddito, i pensionati con bassi redditi sono sostanzialmente discriminati: anche se la riforma sembra in grado di attenuare questo fenomeno, resta il fatto che oggi l’aliquota media per un lavoratore dipendente con 20mila euro risulta dell’11,3%, mentre quella di un pensionato del 18,33% essenzialmente per effetto del bonus 80-100 euro.

In altre parole, l’intervento sull’Irpef ci fa compiere pochi e limitati passi avanti. Speriamo su interventi futuri che tuttavia in sede parlamentare incontrerebbero resistenze non trascurabili.

Inoltre, se la riforma doveva in qualche modo anticipare la delega, sarebbe stato utile procedere nella direzione di una sia pur graduale attuazione del modello Dit (Dual income tax) che si vuole adottare, e intervenire per quanto possibile sulle spese fiscali.

Terapia d’urto contro l’evasione

Infine, va ricordato che sia per quanto riguarda il ridisegno della base imponibile che quello delle aliquote dell’imposta sarebbe indispensabile varare prioritariamente una vera e propria terapia d’urto contro l’evasione fiscale di massa che permane nel nostro Paese. Solo così sarebbe possibile conciliare le necessità di gettito con l’obiettivo di riduzione delle imposte, tenendo anche conto del fatto che la pandemia ci lascerà con l’esigenza di aumentare la spesa corrente in numerosi settori, dalla sanità all’istruzione, ai trasporti, ecc.

Ciò detto, veniamo alle esigenze economico-sociali. Il recente rapporto Censis ci ha ricordato che esistono in Italia 2 milioni di famiglie (5 milioni di persone) che vivono in povertà assoluta. Lo strumento in grado di alleviare questa situazione, in verità drammatica, il Reddito di cittadinanza, è stato e continua a essere contestato, e le proposte della Commissione Saraceno che avrebbero potuto migliorarne gli effetti sono state ignorate, mentre ci si è concentrati solo sulla repressione degli eventuali abusi. Non si tratta di una scelta particolarmente razionale.

La questione del cuneo

Se poi guardiamo all’economia nel suo complesso, personalmente non ho dubbi che il problema più importante sia oggi quello di ridurre il prelievo contributivo e fiscale sul lavoro per favorire una maggiore e migliore occupazione nell’attuale contesto di ripresa. Si tratta della proposta di Confindustria che dovrebbe essere ben vista dai sindacati in quanto in grado di conciliare la riduzione del cuneo fiscale con l’aumento delle buste paga e la creazione di più ampi margini contrattuali per le trattative salariali. I sindacati, dal canto loro hanno ragione quando dicono che nella situazione attuale, per quanto riguarda l’Irpef, intervenire sulle detrazioni era preferibile rispetto a qualsiasi modifica delle aliquote, ma sono meno convincenti quando insistono sul fatto che l’intervento avrebbe dovuto riguardare soprattutto i redditi di lavoro dipendente e da pensione: nel momento in cui l’intervento riguarda l’Irpef e il gettito dell’Irpef proviene per circa il 90% dai redditi di lavoro dipendente e pensione, la forza polemica della proposizione risulta piuttosto spuntata. Il problema riguarda piuttosto quali lavoratori, quali pensionati, e come intervenire in concreto.

In sostanza ha prevalso la logica di fare un intervento tecnicamente ben fatto che soddisfi le aspettative di (quasi) tutti come se ci fossero risorse inesauribili a disposizione. Il che non è.

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