Contenzioso

Rassegna della Cassazione 11 agosto - 2 settembre 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sulle sentenze di condanna del datore di lavoro

Trasferimento di ramo di azienda

Recesso in prova di un invalido

Licenziamento per giusta causa

Sulle sentenze di condanna del datore di lavoro

Cass., sez. lav., 2 settembre 2014, n. 18519

Pres. Roselli; Rel. Balestrieri; P.M. Mastroberardino; Ric. G.A.; Contr. D.F. & C. Srl

Procedimenti in materia di lavoro - Sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di mensilità di retribuzione - Omessa indicazione del preciso ammontare della somma dovuta - Inesistenza di elementi sufficienti alla quantificazione - Titolo esecutivo - Esclusione

La sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di quanto dovuto al lavoratore a seguito dell'accertamento della illegittimità della risoluzione datoriale del rapporto di lavoro costituisce valido titolo esecutivo se non richiede ulteriori interventi del giudice diretti alla esatta quantificazione del credito, in quanto alla determinazione del credito possa pervenirsi per mezzo di un mero calcolo aritmetico sulla base di elementi certi e positivi contenuti tutti nel titolo fatto valere, dovendo il titolo esecutivo essere determinato e delimitato in relazione all'esigenza di certezza e liquidità del diritto di credito che ne costituisce l'oggetto, i quali sono da identificare nei dati che, pur se non menzionati in sentenza, sono stati assunti dal giudice come certi e oggettivamente già determinati, anche nel loro assetto quantitativo, perché così presupposti dalle parti e pertanto acquisiti al processo e non desumibili da elementi esterni.

Nota - Il caso in esame trae spunto da un ricorso proposto da un lavoratore a seguito del quale il Tribunale di Salerno dichiarava l'inefficacia del licenziamento intimatogli dalla società sua datrice di lavoro, condannando la stessa al pagamento delle retribuzioni medio tempore non corrisposte in giuridica continuità del rapporto di lavoro.

In virtù di tale sentenza il lavoratore, con atto di precetto, intimava alla società il pagamento di tali retribuzioni e, a fronte del mancato adempimento del debitore, notificava allo stesso atto di pignoramento presso terzi.

Il Giudice dell'Esecuzione presso il Tribunale di Salerno, in accoglimento dell'eccezione proposta dalla società circa l'insussistenza di un idoneo titolo esecutivo, concedeva la sospensione dell'esecuzione e rimetteva le parti innanzi al giudice del lavoro. La Società chiedeva, quindi, a quest'ultimo che venisse dichiarata l'inesistenza del diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata per la mancanza di un valido titolo esecutivo.

Secondo la Società, infatti, la sentenza posta a fondamento dell'intrapresa esecuzione non conteneva sufficienti elementi per la quantificazione del credito. Costituitosi in giudizio il lavoratore ribadiva, invece, come il titolo esecutivo posto a base dell'esecuzione contenesse tutti i parametri idonei alla quantificazione del credito e in via subordinata, nell'ipotesi di ritenuta insufficienza degli elementi desumibili dalla sentenza, chiedeva in via riconvenzionale l'accertamento del credito nella sua esatta misura.

Il Tribunale di Salerno accoglieva l'opposizione e dichiarava la nullità della procedura esecutiva.

Successivamente, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione chiedendo, con il primo motivo, di stabilire se il requisito della liquidità del credito, che, unitamente alla certezza ed esigibilità, deve assistere il titolo esecutivo posto a base del procedimento a tutela del creditore, esiste anche quando gli elementi necessari per calcolare gli importi dovuti dall'obbligato datore di lavoro siano desumibili dagli atti acquisiti al processo, anche per implicito o per relationem o per presunzioni.

La Suprema Corte, nel ritenere il motivo infondato, ha ribadito un principio già affermato secondo il quale la sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di quanto dovuto al lavoratore a seguito dell'accertamento della illegittimità della risoluzione datoriale del rapporto di lavoro costituisce valido titolo esecutivo se non richiede ulteriori interventi del giudice diretti alla esatta quantificazione del credito, in quanto alla determinazione del credito possa pervenirsi per mezzo di un mero calcolo aritmetico sulla base di elementi certi e positivi contenuti tutti nel titolo fatto valere, dovendo il titolo esecutivo essere determinato e delimitato in relazione all'esigenza di certezza e liquidità del diritto di credito che ne costituisce l'oggetto, i quali sono da identificare nei dati che, pur se non menzionati in sentenza, sono stati assunti dal giudice come certi e oggettivamente già determinati anche nel loro assetto quantitativo, perché così presupposti dalle parti e pertanto acquisiti al processo e non desumibili da elementi esterni.

La Corte ha evidenziato come nel caso di specie la sentenza posta a fondamento dell'esecuzione non consentisse in alcun modo di quantificare le pretese economiche avanzate dal lavoratore, non contenendo alcuna statuizione circa il c.c.n.l. applicabile e le annesse tabelle salariali, né facendo riferimento alcuno alla retribuzione spettante al lavoratore, né alle mansioni e alla qualifica da questi eventualmente svolte o posseduta, pertanto la stessa non poteva costituire valido titolo esecutivo.

Altrettanto infondato per la Suprema Corte è il secondo motivo con il quale il ricorrente chiedeva di stabilire se la domanda riconvenzionale, proposta dal creditore procedente nel giudizio di opposizione all'esecuzione promosso dal debitore, volta ad accertare l'esatta quantificazione del credito, debba essere esaminata dal giudice adito, a prescindere da qualsiasi vizio attinente al titolo esecutivo, soprattutto per poter costituire un nuovo titolo esecutivo di credito certo, liquido ed esigibile.

La Corte, nel ritenere infondato il motivo, ha precisato che laddove il credito azionato non sia evincibile dal titolo esecutivo, essendo necessari elementi estranei al giudizio conclusosi e non predeterminati per legge, il creditore può legittimamente fare ricorso al procedimento monitorio, nel cui ambito la sentenza è utilizzabile come atto scritto, dimostrativo dell'esistenza del credito fatto valere, il cui ammontare può essere provato con altri e diversi documenti, ma non può, invece, attivare l'esecuzione, non essendo peraltro possibile in sede di opposizione determinare autonomamente l'entità del credito, avendo il giudice dell'esecuzione il potere-dovere - con accertamento che esaurisce la sua efficacia nel processo esecutivo in quanto funzionale all'emissione di un atto esecutivo e non alla risoluzione di una controversia nell'ambito di un ordinario giudizio di cognizione - di verificare l'idoneità del titolo e di controllare la correttezza della quantificazione del credito operata dal creditore nel precetto, posto che le attività che si compiono nel processo esecutivo non sono dirette all'accertamento in senso proprio di diritti, ma alla loro realizzazione pratica sulla base di un preesistente titolo esecutivo.




Trasferimento di ramo di azienda

Cass., sez. lav., 11 agosto 2014, n. 17863

Pres. Roselli; Rel. Bronzini; P.M. Celeste; Ric. T. Spa; Contr. B.L. più altri

Trasferimento di ramo d'azienda - Art. 2112 c.c. - Ramo di azienda trasferito preesistente alla cessione - Necessità

Per ramo di azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità. Ciò presuppone necessariamente una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionale, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo di azienda già costituito.

Nota - La Corte di appello di Venezia confermando la sentenza resa dal Tribunale della medesima città, accertava la nullità della cessione del ramo di azienda dalla Telecom alla TNT Logistic. La corte territoriale ricordava l'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione secondo cui per ramo di azienda deve intendersi un complesso di beni e servizi con autonomia funzionale preesistente rispetto alla cessione. Lo scopo della normativa è, invero, quello di evitare cessioni fraudolente attuate al solo scopo di cedere a terzi semplici articolazioni dell'azienda senza il necessario consenso dei lavoratori.

La società ricorrente censura la decisione della corte di merito denunciando la violazione dell'art. 2112, comma 5, c.c., nella parte in cui aveva ritenuto che il ramo trasferito non fosse preesistente e non costituisse un'articolazione funzionalmente autonoma. Tale affermazione, secondo l'azienda, era errata in quanto la scelta della società di dare vita ad un ramo di azienda con tali caratteristiche costituiva una prerogativa esclusiva dell'imprenditore e come tale insindacabile ex art. 41 Cost. Anche il requisito della preesistenza, ad avviso della ricorrente, doveva ritenersi soddisfatto, non essendo rilevante che la cedente avesse mantenuto alcune funzioni del ramo trasferito.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso e, facendo riferimento alla formulazione dell'art. 2112 c.c. precedente alle modifiche del D.Lgs. n. 276/2003, afferma che, per orientamento costante della sezione, per "ramo di azienda" ai sensi della disposizione codicistica deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità. Il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente in tal senso anche la recente sentenza della Corte di giustizia Ue (del 6 marzo 2014, n. C458/12) e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo di azienda già costituito. Conseguentemente si applica la disciplina dettata dall'art. 2112 c.c., anche in caso di cessione di parte dello specifico settore aziendale, purché si tratti di un insieme organicamente finalizzato ex ante all'esercizio dell'attività di impresa.

In presenza di tali presupposi, continua la Corte, si considerano far parte del ramo anche i dipendenti che prestano la loro attività all'interno dello stesso, e quindi anche i rapporti di lavoro vengono trasferiti senza necessità di un loro consenso. Resta fermo, tuttavia, che il lavoratore può far valere in giudizio la non configurabilità del trasferimento, qualora non ricorrano i presupposti di legge e, quindi, l'inefficacia della cessione del contratto di lavoro in assenza del suo consenso, tenuto conto del pregiudizio che può derivare al lavoratore da una cessione operata in favore di un soggetto non solvibile o che, comunque, non gli assicuri la continuità del rapporto.

Secondo la Suprema Corte i richiamati princìpi, nel caso di specie, sono stati correttamente applicati dalla corte territoriale la quale aveva rilevato che nel marzo del 2002 si era accentrato in un unico settore la cd. logistica, ma moltissime delle attività ad esso inerenti non erano state effettivamente cedute e, dunque, non si era realizzata la cessione di un ramo di azienda secondo le caratteristiche richieste dalla legge.




Recesso in prova di un invalido

Cass., sez. lav., 12 agosto 2014 n. 17898

Pres. Stile; Rel. Cons. Manna; Ric. B. Srl; Controric. C.P.

Lavoro - Lavoro Subordinato - Costituzione del rapporto - Assunzione - Assunzione in prova - Recesso - Obbligo di motivazione - Sussistenza - Esclusione - Asserita nullità del recesso - Onere della prova - A carico del prestatore di lavoro - Contenuto - Fattispecie relativa a patto di prova con lavoratore invalido assunto ex legge n. 482/1968

In caso di patto di prova stipulato con invalido assunto in forza della legge 2 aprile 1968, n. 482, il recesso dell'imprenditore è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale contenuta nella legge n. 604/1966, sicché non richiede una formale comunicazione del motivo di recesso; tale recesso, pur avendo natura discrezionale, può tuttavia essere direttamente contestato dal lavoratore in sede giudiziale mediante allegazione e prova (di cui è onerato) di fatti tali da dimostrare l'illiceità del motivo (ad esempio per elusione della legge protettiva degli invalidi e/o per mancata concreta possibilità di esperimento della prova) o la tardività del recesso perchè intimato dopo l'avvenuta stabilizzazione del rapporto od altra causa di invalidità.

Nota - Con sentenza non definitiva depositata nel dicembre 2007, la Corte d'Appello di Roma, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale del Lavoro, dichiarava nullo il licenziamento intimato da una società, per mancato superamento del periodo di prova, ad un lavoratore assunto in forza di nulla osta del 16 dicembre 2003, quale appartenente alla categoria degli invalidi civili.

La società ricorreva per Cassazione, lamentando violazione od errata applicazione della legge n. 482/1968 in riferimento all'obbligo di motivazione del licenziamento, nonchè vizio di motivazione, in quanto, trattandosi di lavoratore invalido assunto ai sensi di tale normativa, contrariamente a quanto ritenuto dalla gravata pronuncia, non era da ritenersi prescritta alcuna formale comunicazione del motivo di recesso, che ben poteva essere fornito in sede giudiziale e nella stessa sede tale motivo poteva essere contestato dal lavoratore.

La Suprema Corte ha accolto tale motivo, conformandosi all'orientamento consolidato di legittimità secondo il quale: "in caso di patto di prova stipulato con invalido assunto in forza della legge 2 aprile 1968, n. 482 (come avvenuto nella vicenda in esame), il recesso dell'imprenditore è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale contenuta nella legge n. 604/1966, sicché non richiede una formale comunicazione del motivo di recesso; tale recesso, pur avendo natura discrezionale, può tuttavia essere direttamente contestato dal lavoratore in sede giudiziale mediante allegazione e prova (di cui è onerato) di fatti tali da dimostrare l'illiceità del motivo (ad esempio per elusione della legge protettiva degli invalidi e/o per mancata concreta possibilità di esperimento della prova) o la tardività del recesso perchè intimato dopo l'avvenuta stabilizzazione del rapporto od altra causa di invalidità (cfr., ex aliis, Cass. 14.10.2009 n. 21784; Cass. S.U. 2.8.2002 n. 11633)".

Applicando tali principi al caso di specie, la Corte di Cassazione ha, quindi, ritenuto che la sentenza impugnata avesse erroneamente ritenuto che la società ricorrente fosse onerata di allegazione e prova del motivo del mancato superamento della prova e dell'essere state affidate al lavoratore mansioni compatibili con il suo stato di invalidità.




Licenziamento per giusta causa

Cass., sez. lav., 11 agosto 2014, n. 17859

Pres. Vidiri; Rel. Buffa; P.M. Mastroberardino; Ric. F.G., M.B.; Res. S.G. Spa

Licenziamento individuale - Giusta causa - Utilizzo di internet e del computer per scopi personali - Legittimità

E' legittimo il licenziamento del lavoratore che installi sul computer aziendale un programma di filesharing, che vi copi senza autorizzazione dati aziendali definiti riservati, filmati e foto pornografiche e che utilizzi un programma di posta personale.

Nota - La Corte d'Appello di Brescia, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava la legittimità del licenziamento disciplinare impugnato dal ricorrente.

La Corte, in particolare, riteneva provati i fatti addebitati al lavoratore, consistiti nell'installazione sul computer aziendale di un programma di file sharing, nella copia non autorizzata di file di disegni tecnici definiti riservati, di filmati e fotografie pornografiche, nonché nell'utilizzo di un programma di posta elettronica con account personale.

Avverso la decisione della Corte d'Appello il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, mentre la società resisteva con controricorso.

Il ricorrente, in particolare, censurava la sentenza, rilevando che le contestazioni disciplinari poste alla base del recesso riguardavano condotte in relazione alle quali non vi erano specifiche disposizioni nel codice disciplinare.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, rilevando anzitutto che nei precedenti gradi di giudizio era risultato provato che ai tempi dei fatti di causa erano affissi nella bacheca aziendale un regolamento disciplinare, che vietava ai dipendenti l'accesso ad internet e l'utilizzo della posta elettronica per scopi personali, e la copia del Ccnl, che invece prescriveva il divieto di trafugare schizzi o documenti aziendali.

Ciò detto, la sentenza ha ritenuto corretta la valutazione della Corte territoriale circa la legittimità del licenziamento, posto che le condotte addebitate al lavoratore integrano gli estremi delle violazioni alle norme disciplinari prescritte dal regolamento aziendale e dal Ccnl applicato al rapporto.

E ciò in quanto l'uso di un programma di file sharing e della posta elettronica (quale che sia l'account utilizzato) per scopi personali, nonché il download di foto e filmati pornografici sono attività che presuppongono l'uso della rete internet, vietato dalle disposizioni disciplinari; per un altro verso, l'attività di copiatura di dati aziendali senza autorizzazione e la loro conservazione sul computer rientrano nella previsione della contrattazione collettiva che vieta la sottrazione di documenti del datore di lavoro.

Al riguardo, la Corte ha peraltro rilevato l'inidoneità a giustificare la condotta del lavoratore della possibilità riconosciutagli dalla società di accedere a detti dati e documenti, trattandosi di attività (che, comunque, richiedeva un'apposita autorizzazione da parte del datore di lavoro, nella specie insussistente) più incisiva rispetto a quella di copiatura e salvataggio dei dati, posta in essere dal ricorrente.

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