Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Trasferimento d'azienda e trattamento di fine rapporto
Sopravvenuta inidoneità del lavoratore e obbligo di repechage
Trasferimento per incompatibilità ambientale
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Amministratore di società e compenso


Trasferimento d'azienda e trattamento di fine rapporto

Cass. Sez. Lav. 28 ottobre 2019, n. 27507

Pres. Bronzini; Rel. Arienzo; Ric. O.S.R.L.; Controric. F.C. +2;

Lavoro subordinato – Trasferimento di azienda – Trattamento di fine rapporto – Obbligazioni del cedente e del cessionario – Obbligazione in capo al cedente per la quota di Tfr maturata fino alla cessione dell'azienda – Sussistenza

In caso di cessione d’azienda assoggettata al regime di cui all'art. 2112 c.c., posto il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto, che costituisce istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cessionario è obbligato nei confronti del lavoratore, il cui rapporto sia con lui proseguito, quanto alla quota maturata nel periodo anteriore alla cessione in ragione del vincolo di solidarietà e resta l'unico obbligato quanto alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione, mentre il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale.
NOTA
La decisione in esame ha ad oggetto le rispettive obbligazioni di cedente e cessionario in merito al trattamento di fine rapporto (Tfr) dei dipendenti coinvolti in un trasferimento d'azienda. Il Tribunale di Imperia, investito della questione, aveva ritenuto che il cedente non potesse rimanere obbligato in merito alla quota di t.f.r. relativa alla parte di rapporto precedente al trasferimento d'azienda, da una parte poiché il diritto a percepire la stessa matura solo alla cessazione del rapporto e dall'altra in quanto, con specifico riferimento al caso di specie, il cedente aveva incluso al momento della cessione il t.f.r. maturato dai propri dipendenti tra le passività aziendali, sicché aveva sostanzialmente sostenuto nei confronti della cessionaria il relativo costo.
La Corte d'Appello di Genova riformava parzialmente la decisone del Tribunale di Imperia condannando la cedente in solido con la cessionaria per la quota di t.f.r. maturata precedentemente al trasferimento. Ciò in ossequio all'orientamento della giurisprudenza di Cassazione che ritiene il cessionario unico responsabile per la quota di t.f.r. maturata successivamente alla cessione e il cedente e il cessionario obbligati in solido per quanto riguarda la quota maturata precedentemente alla stessa.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la società cedente sostenendo che la Corte d'Appello fosse incorsa in errore poiché, da un lato non aveva tenuto in considerazione la sopra menzionata inclusione del t.f.r. tra le passività dell'azienda; dall'altro aveva avallato una tesi che prevede la maturazione progressiva del t.f.r., come tale contraria al principio dell'esigibilità del relativo credito solo al momento della cessazione del rapporto e, pertanto, imputabile soltanto al cessionario.
La Suprema Corte ha respinto le censure della società cedente e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha ribadito il Suo costante orientamento, seguito anche dalla Corte d'Appello di Genova, secondo cui «in caso di cessione d'azienda assoggettata al regime di cui all'art. 2112 c.c., posto il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto, che costituisce istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cessionario è obbligato nei confronti del lavoratore, il cui rapporto sia con lui proseguito, quanto alla quota maturata nel periodo anteriore alla cessione in ragione del vincolo di solidarietà e resta l'unico obbligato quanto alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione, mentre il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale».
La Suprema Corte ha avuto modo di precisare, inoltre, che doveva ritenersi ininfluente il fatto che la società cedente avesse incluso tra le passività al momento della cessione la quota di t.f.r. maturata dai dipendenti. Ciò in quanto tale circostanza poteva avere rilievo solo in relazione ai rapporti tra cedente e cessionario e non con riferimento ai dipendenti.

Sopravvenuta inidoneità del lavoratore e obbligo di repechage

Cass. Sez. Lav. 28 ottobre 2019, n. 27502

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; Ric. I.N.; Contr. 3B S.p.A.;

Sopravvenuta inidoneità del dipendente – Obbligo di repechage – Anche in mansioni inferiori – Sussistenza – Limite – Modifiche all'organizzazione aziendale – Esclusione.

La sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni originariamente assegnategli non costituisce giustificato motivo di licenziamento ove all'interno dell'azienda si rinvengano posizioni lavorative, anche corrispondenti a mansioni inferiori, compatibili con la situazione del lavoratore divenuto inidoneo. Tale verifica incontra, però, il limite rappresentato dall'assetto organizzativo stabilito dall'imprenditore, per cui è escluso che al datore di lavoro possano essere richieste anche minime modifiche organizzative per consentire l'utilizzo del lavoratore divenuto inidoneo.
NOTA
La Corte di appello di Venezia confermava la legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica al lavoro ed inesistenza nell'organizzazione aziendale di posizioni confacenti alle residue attitudini del lavoratore. I giudici di appello avevano fondato la loro decisione anche sulle risultanze di una consulenza tecnica d'ufficio alla stregua della quale le uniche - due - posizioni compatibili con il nuovo stato di salute del lavoratore licenziato erano già occupate da altri dipendenti.
Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando la violazione, tra gli altri, dell'art. 4, co. 4, l. n. 68/1999, nella parte in cui la sentenza aveva escluso la sussistenza di un obbligo del datore di lavoro di procedere a modifiche organizzative al fine di consentire al dipendente, divenuto fisicamente inidoneo alle mansioni originarie, di essere utilizzato anche in mansioni inferiori. Il ricorrente evidenziava, infatti che, poiché dalla consulenza tecnica d'ufficio era emerso che presso la sede della datrice di lavoro vi erano almeno due posizioni compatibili con la sua attuale condizione fisica, sarebbe stato onere del datore di lavoro allegare e dimostrare l'impossibilità di spostare i lavoratori che occupavano tali posizioni.
La Cassazione respinge il ricorso rilevando che la questione posta alla sua attenzione investe i limiti del cd. repechage del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni originarie, condizione che, come ha chiarito la Suprema Corte sin dalla sentenza a SS. UU. del 7 agosto 1998, n. 7755, non costituisce di per sé giustificato motivo di recesso, in quanto può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività che sia riconducibile alle mansioni assegnate o, in mancanza, a mansioni inferiori. Fatta questa premessa, chiarisce però la Corte che, la verifica della possibilità di diversa utilizzazione del lavoratore nell'ambito dell'impresa incontra il limite rappresentato dall'assetto organizzativo "insindacabilmente stabilito dall'imprenditore", con ciò escludendo che al datore possano essere richieste anche minime modifiche organizzative per consentire l'utilizzo del lavoratore divenuto inidoneo alle originarie mansioni (Cass. 3 agosto 2018, n. 20497). Tale opzione interpretativa è stata giustificata dalla considerazione che nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32, 36 e 41 Cost.) non poteva pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente, fosse obbligato a procedere a modifiche organizzative che rientrano nella sua piena discrezionalità ex art. 41 Cost.
Conseguentemente a parere della Suprema Corte non sussiste, nel caso di specie, la lamentata violazione dell'art. 4, co. 4, l. n. 68/1999, norma che prevede che, per i lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle originarie mansioni, "l'infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori", atteso che tale previsione non prevede, diversamente da come vorrebbe il ricorrente, che il datore di lavoro proceda ad "adattamenti" organizzativi per consentire l'inserimento del lavoratore divenuto inidoneo. Alla luce delle osservazioni svolte la Cassazione respinge il ricorso.

Trasferimento per incompatibilità ambientale

Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2019, n. 27345

Pres. Torrice; Rel. Tricomi; Ric. N.P.; Controric. M.A.E.

Lavoro - Lavoro subordinato – Trasferimenti - Trasferimento per incompatibilità ambientale - Natura disciplinare - Esclusione - Ragioni di cui all'art. 2103 c.c. - Sindacabilità - Limiti.

Il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità aziendale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all'art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) dei lavoratori trasferiti, come dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari. In tali casi, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell'impresa e, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell'iniziativa economica privata (garantita dall'art. 41 Cost.), il controllo stesso non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale, né questa deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo.
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la vexata questio dei presupposti di legittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale.
Nel caso di specie, un lavoratore subiva un procedimento disciplinare per «gravi carenze nelle pratiche ai visti rilasciati» e, sincronicamente, veniva trasferito presso altra sede.
A fronte dell'impugnazione del trasferimento, il Tribunale ne dichiarava l'illegittimità, riscontrando la «natura disciplinare» dello stesso, «non ravvisando ragioni organizzative diverse da quelle che avevano determinato l'avvio del procedimento disciplinare, come reso evidente dalla vicinanza cronologica di quest'ultimo».
La Corte di merito, di contro, riconosceva la validità del provvedimento datoriale in quanto, da un lato, non poteva reputarsi sanzionatorio per il sol fatto di esser stato disposto in relazione a fatti oggetto anche di procedimento disciplinare; dall'altro, era stato adottato a fronte di «circostanze idonee a generare quel clima di sfiducia, pregiudizievole per il buon andamento ed il prestigio della struttura».
Il dipendente proponeva ricorso per Cassazione.
Il Supremo Collegio respinge l'impugnativa, rammentando, anzitutto, che il trasferimento per incompatibilità aziendale/ambientale, trovando la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all'art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato) del lavoratore trasferito, come dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari.
Ciò posto – a parere della Cassazione – la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il lavoratore ed i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti nell'ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione - com'era avvenuto, a parere dei Giudici d'appello, nel caso di specie - concretizza un'oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro e va valutata in base al disposto dell'art. 2103 c.c., con conseguente possibilità di trasferimento del dipendente sulla base di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Soggiunge – infine – la Suprema Corte che i fattori-presupposto del trasferimento ambientale sono plurimi, atteso che «la situazione di incompatibilità riguarda situazioni oggettive o situazioni soggettive valutate secondo un criterio oggettivo, indipendentemente dalla colpevolezza o dalla violazione di doveri d'ufficio del lavoratore».

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 28 ottobre 2019, n. 27501

Pres. Nobile; Rel. Pagetta; Ric. T.P.; Controric. D.S.F.

Licenziamento collettivo - Comunicazione ex art. 4, comma 9, L. 223/91 - Mancata indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta - Illegittima applicazione dei criteri - Tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, Stat. lav. – Applicazione.

In tema di licenziamenti collettivi, quando la comunicazione ex art. 4, comma 9, legge n. 223 del 1991, carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta, si sia risolta nell'accertata illegittima applicazione di tali criteri vi è annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità ai sensi dell' art. 18, comma 4, Stat. lav. come risultante dall'art. l, comma 42, della l. n. 92 del 2012.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore veniva licenziato nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo per riduzione del personale intrapresa da una società. Il licenziamento veniva dichiarato illegittimo dal Tribunale e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d'Appello annullava il recesso datoriale condannando la Società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, a corrispondere l'indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto oltre accessori ed alla regolarizzazione dei contributi previdenziali ed assistenziali. In particolare la Corte di merito annullava il licenziamento sulla considerazione che «le modalità di applicazione del criterio delle esigenze tecnico produttive nella selezione del personale da licenziare erano frutto di scelta in alcun modo concordata in sede sindacale e neppure successivamente indicate nella comunicazione finale L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, ma esplicitate solo nel corso del giudizio di primo grado ed in particolare nella fase di opposizione».
La Società ha proposto ricorso per cassazione denunciando in particolare «violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9 e della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, censurando la sentenza impugnata per avere applicato la tutela reintegratoria pur avendo riscontrato un vizio procedimentale e, quindi formale».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso specificando che a differenza di quanto affermato dalla Società, l'annullamento del licenziamento non è stato determinato dal riscontro di una violazione meramente formale della procedura di licenziamento collettivo ma dell'accertamento relativo alla violazione dei criteri di scelta.
Secondo la Corte di legittimità, dalla decisione della Corte d'appello «si evince che l'annullamento del licenziamento è stato dalla Corte di merito collegato alle non corrette e sostanzialmente arbitrarie applicazioni del criterio legale delle esigenze tecnico produttive ed organizzative e, quindi, non solo alla mera incompletezza della comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, ma per l'ipotesi, ritenuta integrata, di violazione sostanziale dei criteri di scelta».
La Corte ha concluso affermando che «L'applicazione della tutela reintegratoria di cui alla L. 300/1970, art. 18, comma 4, nel testo novellato dalla L. 92/2012, è coerente con tale accertamento secondo quanto già ritenuto da questa Corte la quale ha chiarito che in tema di licenziamenti collettivi, quando la comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta, si sia risolta nell'accertata illegittima applicazione di tali criteri vi è annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità ai sensi dell'art. 18, comma 4, Stat.lav. come risultante dalla L. 92/2012, art. 1, comma 42».

Amministratore di società e compenso

Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2019, n. 27335

Pres. Napoletano; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. I.M.&C. S.p.A.; Controric. C.R. + 3;

Amministratore unico o membro del Consiglio di Amministrazione - Rapporto di immedesimazione organica - Sussistenza - Assenza del requisito della coordinazione - Gratuità del compenso - Ammissibilità

L'amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una s.p.a. sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell'art. 409 c.p.c., di guisa che del tutto legittima è anche la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni. In tal senso, il possesso della qualifica di amministratore di società di capitali, non comporta in capo a chi tale qualifica riveste, alcun rapporto di tipo contrattuale con la società stessa, di guisa che non potrebbe riconoscersi all'amministratore alcun diritto ex lege al compenso.
NOTA
Una società, vantando di essere titolare di crediti nei confronti di un soggetto che aveva rivestito funzioni di Presidente del Consiglio di Amministrazione ovvero di Amministratore Delegato in talune società, conveniva in giudizio, oltre al preteso debitore, anche tali ultime società, proponendo azione surrogatoria "satisfattiva" ai sensi dell'art. 2900 c.c.
In particolare, la società ricorrente chiedeva che le società presso le quali il debitore aveva ricoperto detti ruoli, corrispondessero il pagamento dei compensi a lui spettanti direttamente in favore di essa creditrice, previa determinazione, anche in via equitativa, dei compensi maturati in favore del proprio debitore.
La domanda, accolta in primo grado, veniva invece rigettata in sede di gravame.
La Corte territoriale, a fondamento della propria statuizione, osservava che l'azione surrogatoria satisfattiva nella specie esperita, presupponeva l'accertamento della sussistenza del credito del debitore verso il terzo e la sua liquidità. Tuttavia, dall'atto costitutivo delle società convenute non si evinceva la definizione di alcun diritto al compenso per gli amministratori, né le delibere assembleari avevano mai provveduto in tal senso. Inoltre, la circostanza che il soggetto debitore avesse accettato, per anni, incarichi che non prevedevano compensi, confermava la gratuità della prestazione collaborativa resa.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la società che si affermava creditrice di somme.
In particolare, con il terzo motivo di ricorso, tale società censurava la sentenza impugnata per aver ritenuto la gratuità della prestazione resa dall'amministratore nelle società in cui aveva ricoperto, rispettivamente, i ruoli di Presidente del Consiglio di Amministrazione e di Amministratore Delegato. Ad avviso del ricorrente, infatti, «il mandato integrante il contenuto dell'incarico conferito all'amministratore ha sempre natura onerosa per espressa previsione dell'art. 1720 c.c., come stabilito dai dicta della corte di legittimità secondo cui la gratuità della prestazione, se non prevista dallo statuto societario, deve emergere da una delibera assembleare».
La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, ricordando che «il rapporto che lega l'amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario "tout court"» (Cass. n. 2759 dell'11/2/2016). Tale orientamento è stato confermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 1545 del 20/1/2017), che hanno rimarcato come tra amministratore unico e consigliere di amministrazione di una società di capitali e tale società sussista un rapporto di tipo societario che, «in considerazione dell'immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dall'art. 409 c.p.c, n. 3, di guisa che del tutto legittima è anche la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni» (Cass. n. 285 del 9/1/2019).
Da ciò discende che «il possesso della qualifica di amministratore di società di capitali, non comporta in capo a chi tale qualifica riveste, alcun rapporto di tipo contrattuale con la società stessa, di guisa che non potrebbe riconoscersi all'amministratore alcun diritto ex lege al compenso» (in questo senso, Cass. n. 15382 del 2017).
Nel caso di specie è stata dunque confermata la pronuncia della Corte d'appello che aveva accertato che il ruolo rivestito dal debitore nelle società (quale Presidente del Consiglio di Amministrazione e Amministratore Delegato) non postulava l'obbligatorietà del compenso professionale, in considerazione del fatto che nessuno degli atti costitutivi delle società coinvolte aveva assicurato alcun compenso per gli amministratori, né era emerso che le stesse avessero effettivamente mai versato alcun corrispettivo per tali cariche.
Sulla scorta di tali considerazioni il ricorso è stato respinto.

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