Contenzioso

Recesso illegittimo per il dipendente aggredito in una lite

di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Il licenziamento del dipendente che per difendersi dall'aggressione di un collega prende parte in una colluttazione è illegittimo perché sproporzionato. Se il diverbio è realmente avvenuto e ha ecceduto la semplice difesa, però, il lavoratore non ha diritto alla reintegra ma alla sola tutela indennitaria forte.

Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 29090/2019, decidendo sul ricorso di una società che si era vista condannata in primo e secondo grado a corrispondere 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto all'ex dipendente che, reagendo all'attacco di un proprio sottoposto, aveva sferrato alcuni colpi al collega causandogli gravissime lesioni. Investita della questione, la Corte ha confermato le conclusioni dei giudici di merito, respingendo la tesi della società secondo cui l'alterco tra i dipendenti doveva essere qualificato non come un diverbio litigioso, sanzionato dal contratto collettivo applicabile con misure conservative, ma come una vera e propria rissa, idonea a giustificare il licenziamento per giusta causa o, almeno, il recesso per giustificato motivo soggettivo. A giudizio del datore di lavoro, infatti, la prolungata assenza dei dipendenti dovuta alle lesioni riportate nella lite, valutata insieme al grave impatto dell'episodio sulla tranquillità dell'ambiente di lavoro, ben valeva a qualificare l'evento come una rissa. In realtà, la Cassazione ha precisato che la breve durata del litigio e il fatto che fosse bastata una sola persona a sedarlo fondavano il giudizio reso dalle corti di merito: in simili casi non c'è delitto di rissa, ma si è di fronte a un meno grave diverbio litigioso sfociato in vie di fatto.

A nulla sono valse neppure le ulteriori osservazioni della società, secondo cui in primo e secondo grado non era stato tenuto conto di una serie di fattori che, indipendentemente dalla qualificazione dell'evento, determinavano una lesione permanente del vincolo fiduciario con l'ex dipendente. Secondo il datore di lavoro, infatti, era anzitutto indispensabile tenere conto dell'alto livello di inquadramento del lavoratore, che in quanto “quadro” era tenuto a una particolare diligenza sul posto di lavoro. Allo stesso modo, doveva essere preso in considerazione il fatto lo stesso dipendente non si fosse limitato a proteggersi dall'aggressione subita, ma avesse invece travalicato il limite della difesa finendo per sovrastare il collega, cagionandogli lesioni molto gravi. Inoltre, non poteva essere ignorata neppure la circostanza che il diverbio fosse stato oggetto dell'attenzione della stampa locale, con un conseguente danno di immagine per la società. Sul punto, dopo avere sottolineato che il Tribunale prima e la Corte d'appello poi avevano preso in considerazione tutti gli elementi della vicenda, la Cassazione ha ribadito che spetta solo al giudice di merito la valutazione complessiva sulla gravità dei fatti sottesi al licenziamento. Al riguardo, la valutazione prescinde finanche dalle previsioni del contratto collettivo e riguarda la più generale nozione di giusta causa contenuta nel codice civile: la condotta idonea a giustificare il licenziamento in tronco è solo quella che, tenuto conto della circostanza complessiva, sia di tale gravità da scuotere la fiducia del datore di lavoro e rendere la prosecuzione del rapporto contraria agli scopi aziendali. A tale fine, è necessario che le concrete modalità di svolgimento dei fatti siano idonee a denotare una scarsa inclinazione del dipendente all'attuazione dei propri obblighi di diligenza, buona fede e correttezza nel futuro svolgimento del rapporto. Nel caso deciso dai giudici di Cassazione, però, la gravità del comportamento aggressivo doveva essere ridimensionata alla luce del quadro generale della vicenda: il diverbio era nato da un'aggressione e, oltre a essere stato sedato senza troppe difficoltà, riguardava un lavoratore mai stato soggetto ad alcun procedimento disciplinare, nonostante fosse in azienda da molti anni.

Licenziamento sproporzionato e dunque illegittimo ma, precisa la Corte, non idoneo a fondare il diritto dell'ex-dipendente alla reintegra. Dopo la riforma dell'articolo 18 operata dalla legge 92/2012, infatti, la tutela reale trova applicazione solo nei casi in cui il giudice accerti che il non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato o perché lo stesso fatto è in realtà sanzionato dal contratto collettivo o dai codici disciplinari applicabili con una sanzione meno grave dell'espulsione dalla società. Al riguardo, deve ritenersi corretta la conclusione del giudice di merito che, effettuando una valutazione di proporzionalità complessiva, abbia tenuto conto anche ma non solo della parametrazione della condotta del dipendente rispetto alle previsioni della contrattazione collettiva. Nel caso di specie, la dinamica del fatto rende certamente il licenziamento sproporzionato, ma non per questo inefficace. Dunque, il licenziamento è sproporzionato, la reintegra è esclusa: via libera, in simili casi, alla tutela indennitaria forte.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©