Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa e abbandono del posto di lavoro
Licenziamento per giusta causa e minacce e molestie ad altro dipendente
Licenziamento disciplinare
Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta
Licenziamento collettivo e scelta dei lavoratori Licenziamento individuale

Licenziamento per giusta causa e abbandono del posto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2019, n. 31529

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; Ric. A.R.A.M.; Contr. e ric. incid. T.F. S.r.l.;

Licenziamento per giusta causa – Rifiuto di svolgere la prestazione – Abbandono del posto di lavoro – Assenza di ripercussioni sull'andamento aziendale – Elevata conflittualità pregressa – Sanzione espulsiva – Assenza di proporzionalità – Illegittimità – Tutela indennitaria

L'accesso alla tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, della L. 300/1970, divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla L. 92/2012, presuppone una valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto contestato tipizzato dalla contrattazione collettiva. Laddove, di contro, il CCNL rimetta al giudice la valutazione dell'esistenza di un simile rapporto di proporzione in relazione al contesto, al lavoratore spetta la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, della L. n. 300 del 1970, non ravvisandosi in tale disciplina una disparità di trattamento – connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare – bensì l'espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione dell'autonomia collettiva in materia.
Pertanto, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria (art. 18 cit., comma 5) se la condotta in addebito non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa.
NOTA
La Corte di appello di Milano, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Como, dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al dipendente, con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro e condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria ai sensi dell'art. 18, comma 5, della L. 300/1970.
In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto realizzati dal lavoratore due dei tre addebiti disciplinari contestati dal datore di lavoro (nella specie, l'ingiustificato rifiuto del trasporto di un pacco e l'abbandono del posto di lavoro per circa un'ora), tuttavia, in assenza di ripercussioni sull'andamento aziendale e a fronte del contesto di elevata conflittualità in cui i comportamenti si sono innestati, aveva ritenuto sproporzionato l'atto di recesso datoriale.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ha ritenuto condivisibile il ragionamento della Corte territoriale che aveva, da un lato, accertato la sussistenza di due delle tre condotte contestate al lavoratore ritenendole rilevanti sul piano disciplinare – in quanto condotte integranti inadempimento degli obblighi legali e contrattuali incombenti sul lavoratore – dall'altro lato, aveva, tuttavia, ritenuto sproporzionata la reazione datoriale escludendo la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva.
«Il giudice di merito – aggiunge la Suprema Corte – esclusa la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, ha correttamente svolto, al fine di individuare la tutela applicabile, l'ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dal comma 4 dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 per accedere alla tutela reintegratoria ("insussistenza del fatto contestato" ovvero fatto rientrante "tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili"), in quanto, in assenza di tali requisiti, va applicato il regime dettato dal comma 5, da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale».
In conclusione, quindi, con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha confermato che – stante l'accertata sproporzione tra sanzione e infrazione – deve essere accordata al lavoratore la tutela risarcitoria (ex art. 18 cit., comma 5), poiché la condotta addebitata al dipendente non coincide con alcuna delle fattispecie per le quali il CCNL di riferimento prevede una sanzione conservativa.
Conseguentemente, sia il ricorso del lavoratore sia il ricorso incidentale svolto dal datore di lavoro sono stati rigettati con compensazione delle spese di lite del giudizio di legittimità.

Licenziamento per giusta causa e minacce e molestie ad altro dipendente

Cass. Sez. Lav. 28 gennaio 2020, n. 1890

Pres. Patti; Rel. Patti; P.M. Mastroberardino; Ric. S.A.; Controric. T. S.p.A.

Licenziamento per giusta causa – Minacce e molestie ad altro dipendente – Idoneità a ledere il vincolo fiduciario – Tipizzazioni del CCNL – Vincolatività – Esclusione – Rilevanza dei principi radicati nella coscienza sociale – Configurabilità – Verifica giudiziale della sussistenza della nozione legale ¬¬– Necessità

La giusta causa di licenziamento è nozione legale, rispetto alla quale non sono vincolanti (al contrario che per le sanzioni disciplinari di tipo conservativo) le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione. Il giudizio in merito alla gravità della condotta ed alla proporzionalità della sanzione rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.
NOTA
La Corte d'Appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale, accertava la legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente per giusta causa, consistita in reiterate minacce e molestie perpetrate nei confronti di una collega a seguito dell'interruzione della loro relazione sentimentale.
Avverso tale pronuncia, il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando, inter alia, la falsa applicazione degli artt. 62 e 64 del CCNL mobilità e attività ferroviarie, nonché la violazione dell'art. 2119 c.c. per erronea esclusione del comportamento del ricorrente dall'ipotesi di «minacce o ingiurie gravi verso altri dipendenti dell'azienda, o per manifestazioni calunniose o diffamatorie», sanzionata dal contratto collettivo con una sanzione conservativa.
La Suprema Corte ritiene infondata tale censura e non configurabile una violazione dell'art. 2119 c.c., non rilevando nel caso in esame la sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma elastica. A ben vedere, oggetto della censura del lavoratore era invece l'apprezzamento in fatto della Corte d'Appello, che si sottrae a censure in sede di legittimità se sorretto da adeguata e logica motivazione (in senso conforme, Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1788; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; Cass. 26 settembre 2018, n. 23046).
Al riguardo, la Corte di cassazione ribadisce che la giusta causa di licenziamento è nozione legale, rispetto alla quale non sono vincolanti (al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo) le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità delle condotte a ledere il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave rispetto a quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata condotta (in senso conforme, da ultimo, Cass. 24 ottobre 2018, n. 27004; Cass. 16 luglio 2019, n. 19023). Difatti, ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando invece il giudizio di gravità della condotta e della proporzionalità della sanzione espulsiva nell'attività valutativa del giudice, purché questi valorizzi elementi concreti – di natura oggettiva e soggettiva e che siano coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo e con i principi radicati nella coscienza sociale – idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (in senso conforme, Cass. 7 novembre 2018, n. 28492; Cass. 23 maggio 2019, n. 14063).


Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 5 dicembre 2019, n. 31839.

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Alberto Celeste; Ric. C. A. M.; Controric. P.I. S.p.A.

Licenziamento individuale - Disciplinare - Giustificato motivo soggettivo - Nozione legale - Condotte punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa - Interpretazione estensiva - Criteri – Conseguenze - Settore: poste - Fattispecie: Direttrice di UP che non effettua le dovute segnalazioni in materia di antiriciclaggio pur in presenza di operazioni sospette.

Premesso che la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo sono nozioni legali, le previsioni del CCNL che graduano le sanzioni disciplinari non sono vincolanti per il giudice. Tale principio subisce un'eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato al CCNL, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (ex art. 12, l. n. 604/1966). Conseguentemente, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti, a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva" - ad es. art. 54, comma 5, lett. C, CCNL Poste - dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari.
NOTA
Una lavoratrice veniva licenziata per giustificato motivo soggettivo per: (i) aver autorizzato delle operazioni di prelievo senza svolgere la segnalazione richiesta per l'antiriciclaggio; (ii) per aver autorizzato operazioni di prelievo di importo pari o superiore ad euro 20.000,00 senza richiedere la preventiva autorizzazione al TSC di Napoli.
La lavoratrice impugnava il licenziamento davanti al Tribunale che respingeva il ricorso, escludendo però la configurabilità del secondo addebito. Avverso tale sentenza veniva proposto reclamo in via principale da parte della lavoratrice ed in via incidentale da parte della datrice di lavoro in merito al secondo addebito negato dal Tribunale. La Corte di appello di Napoli, in accoglimento del reclamo incidentale della datrice di lavoro, riteneva il licenziamento legittimo, ne escludeva la tardività ed accertava la proporzionalità della sanzione irrogata in quanto, seppure la condotta della lavoratrice non rientrasse in una delle ipotesi previste dall'art. 54, comma 5 del CCNL applicato al rapporto, non era nemmeno sussumibile nell'ambito delle previsioni collettive che prevedevano una sanzione conservativa e, pertanto, integrava «la nozione legale di giustificato motivo soggettivo del licenziamento».
La Corte di appello, infatti, riconosceva che la condotta della lavoratrice fosse «gravemente negligente ed inconcepibile per un dipendente che riveste un ruolo apicale e che dovrebbe, oltre ad osservare personalmente le procedure, vigilare sull'osservanza delle stesse da parte dei propri subordinati» e che la condotta fosse connotata da «particolare gravità, considerato che le disposizioni violate miravano ad evitare l'utilizzo del sistema finanziario per scopi criminosi».
La lavoratrice impugnava la sentenza di secondo grado lamentando che «la condotta posta in essere non rientrasse in alcuna delle ipotesi che la contrattazione collettiva riconduce a sanzione conservativa avendo considerato il fatto alla medesima ascritto di "massima gravità", nonostante "l'assenza di qualsivoglia componente dolosa o fosse anche solo di colpa grave" e la mancanza di danni per la società».
La Suprema Corte nel rigettare il ricorso della ricorrente, afferma che «ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: (…) il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore data espressamente salva dal legislatore (art. 12 l. n. 604 del 1966). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti (cfr. in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva", dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. 17337 del 2016)».

Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta

Cass. Sez. Lav. 19 dicembre 2019, n. 34132

Pres. Di Cerbo; Rel. Raimondi; P.M. Sanlorenzo; Ric. V.S.P. S.r.l.; Controric. F.L.;

Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta - Obbligo di verifica della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nel luogo di lavoro - Sussiste

In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, che discende dal recepimento dell'art. 5 della Dir. 2000/78/CE e dall'interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5.

NOTA
La Corte di appello di Napoli confermava la decisione del giudice di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla società datrice per violazione dell'obbligo di repechage.
La Corte territoriale riteneva che, vista l'inidoneità parziale del lavoratore e la non soppressione della posizione lavorativa, il datore di lavoro avrebbe dovuto verificare se fosse stato possibile reperire posizioni di lavoro compatibili con il nuovo stato di salute, individuandole tra quelle già esistenti.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società deducendo l'erroneità della sentenza per aver posto a carico del datore di lavoro un onere probatorio relativamente ad un fatto per il quale non è previsto il sindacato del giudice, e cioè la modifica dell'organizzazione aziendale. La società riteneva che l'obbligo di repechage si limitasse alle sole posizioni vacanti e non dovesse comportare una modifica dell'assetto organizzativo.
La Suprema Corte, muovendo dall'assunto che la sentenza di appello avesse imposto giudizialmente la modifica dell'organizzazione aziendale, ha accolto il ricorso della società, ritenendo tuttavia che la Corte territoriale avesse omesso di valutare, alla luce della Direttiva n. 78/2000 CE del 27.11.2000, la possibilità di "adattamenti ragionevoli" del luogo di lavoro per garantire il rispetto della parità di trattamento dei disabili sul luogo di lavoro.
La Suprema Corte ha rilevato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, l'articolo 5 della Direttiva 2000/78, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21, impone agli Stati membri di prevedere, nella loro legislazione, un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, a favore di tutte le persone con disabilità, al fine di consentire loro di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, purchè ciò non dia luogo ad oneri finanziari sproporzionati (cd. "accomodamenti ragionevoli").
Il legislatore italiano, nel recepire l'obbligo previsto dall'art. 5 della direttiva 2000/78/CE, con la legge n. 99 del 2013 (articolo 9, comma 4 - ter) ha aggiunto all'articolo 3 del D. Lgs. n. 216 del 2003 il comma 3bis, del seguente tenore: "Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n.18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente".
Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte, aderendo alla precedente giurisprudenza in materia (sentenze n. 6798 e n. 27243 del 2018) ha statuito che "In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro - purchè comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido - ai fini della legittimità del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte "ratione temporis" alla applicazione dell'art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell'art. 5 della Dir. 2000/78/CE, dall'interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5".
Applicando tali principi al caso concreto, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado, ritenendo che la Corte territoriale non avesse svolto alcuna indagine sulla possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli da parte del datore di lavoro e del rispetto del predetto art. 3 comma 3bis al fine del corretto bilanciamento tra il diritto del disabile ad essere discriminato, quello dell'imprenditore ad organizzare la propria azienda secondo le proprie insindacabili scelte e quello degli altri lavoratori.

Licenziamento collettivo e scelta dei lavoratori

Cass. Sez. Lav. 17 gennaio 2020, n. 981

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Cimmino; Ric. B.S.S. S.p.A.; Controric. A.I.

Licenziamento collettivo - Scelta dei lavoratori - Automatica coincidenza con i lavoratori sospesi in CIGS - Insussistenza - Verifica della fungibilità delle mansioni - Necessità

Nel caso di un procedimento collettivo per messa in mobilità, la selezione del personale da porre in mobilità non può limitarsi alle sole posizioni lavorative comprese nel trattamento di integrazione salariale, qualora sussistano posizioni fungibili con altri lavoratori addetti all'intero complesso aziendale che non siano stati destinatari della CIGS.
NOTA
La Corte d'appello di Milano, pronunziando in sede di reclamo, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento collettivo intimato dalla Società alla dipendente addetta alla gestione documentale ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970.
La Corte territoriale ha ritenuto che il licenziamento intimato ex lege n. 223 del 1991 alla dipendente – limitato alla sola sede aziendale di Milano – risultava anche affetto dalla violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, consistente nella illegittima limitazione della scelta del personale in esubero alla sede milanese, senza comparazione con i lavoratori di tutta l'azienda che presentavano profili professionali in concreto equivalenti e, dunque, fungibili.
Avverso la sentenza della corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione la dipendente ma la Corte lo ha rigettato.
Per la Cassazione, anche nel caso in cui si avvii la procedura di mobilità a seguito di verifica della impossibilità di collocare i lavoratori sospesi in cassa integrazione guadagni straordinaria, va, invero, applicato il principio, ormai consolidato, secondo cui la comparazione dei lavoratori – al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità – non deve necessariamente interessare l'intero complesso aziendale, ma può avvenire nell'ambito della singola unità produttiva, purché la predeterminazione del limitato campo di selezione sia giustificata dalle esigenze tecnico-produttive ed organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale; deve escludersi la sussistenza di dette esigenze ove i lavoratori da licenziare siano idonei – per acquisite esperienze e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda con positivi risultati – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti o sedi.
La delimitazione della platea dei lavoratori destinatari del provvedimento di messa in mobilità è condizionata dagli elementi acquisiti in sede di esame congiunto e, ove non emerga il carattere infungibile dei lavoratori collocati in CIGS o comunque in difetto di situazioni particolari evidenziate sempre in sede di esame congiunto, la scelta dei lavoratori da licenziare deve interessare tutte le sedi.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che le mansioni di addetta alla gestione documentale erano fungibili con le medesime mansioni svolte dai lavoratori appartenenti alle altre sedi geografiche (ma esclusi dalla CIGS), rendendo, dunque, palese l'assenza di quelle peculiarità che consentono la delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare nella singola unità produttiva individuata dal datore di lavoro.

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